ANCORA PAGHIAMO QUELL’ULTIMO CRAC
I debiti annullati da Edoardo III, la bancarotta dopo l’addio della capitale
Èimprobabile che il Comune di Firenze possa fallire. C’è da sperare che la minaccia di spegnere i lampioni basti a fare arrivare da Roma i fondi per l’emergenza.
Il fallimento del 1878 mise nella nostra classe dirigente quel terrore dei grandi progetti che ancora ci perseguita
Se così non fosse, è giusto ricordare però che per Firenze non si tratterebbe del primo ma del terzo default.
La prima bancarotta risale al 1345 e fu conseguenza della decisione di Edoardo III d’Inghilterra di annullare il debito contratto con i Bardi e i Peruzzi. Le due compagnie fallirono e con loro, in un effetto domino, tutta una rete di investitori minori. Anche il Comune finì travolto, tanto da dover dichiarare la propria insolvenza, consolidando i debiti, salvo impegnarsi a pagare su di essi un interesse annuo perpetuo del 5%. Nel corso dell’ultima guerra il fascismo rievocò l’evento in un film di propaganda antibritannica intitolato Il re d’Inghilterra
non paga e girato negli studi di Pisorno da Gioacchino Forzano. Ma la pellicola non ebbe fortuna, anche per un certo stile arcaicizzante, e si racconta che al termine della proiezione uno spettatore sbottò: «E tutto questo perché nel ‘300 il re d’Inghilterra non pagò!». E un altro: «Succede sempre così! Chi ci va di mezzo è sempre il postero!».
Legata a cause interne fu la seconda bancarotta, dichiarata il 16 giugno 1878 dal regio delegato Felice Reichlin. Per assolvere con decoro la sua missione di capitale del Regno, il Comune di Firenze si era pesantemente indebitato. E gravosi debiti avevano contratto anche i privati, che avevano costruito nuove abitazioni per un esercito di funzionari, impiegati, militari, giornalisti e magari lobbisti scesi in città da Torino dopo la Convenzione di Settembre. La capitale si trasferì a Roma nel 1871 e nel giro di tre anni la popolazione diminuì di 28.ooo unità, col suo strascico di immobili invenduti, appartamenti sfitti, cantieri lasciati a mezzo, impiegati e operai disoccupati. Il fiorentino medio, che già aveva dovuto subire l’aumento dei prezzi legato all’arrivo della capitale, patì la recessione seguita alla sua partenza. Il passaggio dei «buzzurri» agli occhi del popolo non aveva portato che guai. Fu allora che cominciò a serpeggiare il rimpianto per la «Toscanina» dei Lorena, da cui fu lambito lo stesso Collodi, che pure aveva combattuto nella prima guerra d’Indipendenza. Il fallimento del Comune non arrivò subito: fu dichiarato il 16 giugno 1878, dopo che il municipio si era svenato indebitandosi con le banche e aveva atteso invano un sostegno da Roma. Anche l’ingratitudine del governo centrale per Firenze fu probabilmente una concausa della scelta della «consorteria» toscana di non sostenere il governo Minghetti che portò alla caduta della Destra storica. Ma per quanto riguarda la città il fallimento ebbe un’altra ben più grave conseguenza: il terrore, entrato nel Dna della classe dirigente, di concepire grandi progetti, che da allora ci perseguita e che fa sì che le grandi infrastrutture viarie siano ancora quelle concepite dal Poggi per le carrozze.
A fare le spese del fallimento del Comune furono proprio i due protagonisti del rinnovamento di Firenze: il sindaco Ubaldino Peruzzi e lo stesso Poggi. Entrambi, accusati di aver compiuto «spese pazze», dovettero passare sotto le forche caudine di una commissione d’inchiesta che, senza metterne in dubbio la moralità e riconoscendone lo spirito patriottico, imputò loro di avere agito con leggerezza. Il Peruzzi, considerato dall’opinione pubblica il solo responsabile di un fallimento che aveva messo sul lastrico molti piccoli risparmiatori, vide compromesse la sua carriera politica e le sue fortune economiche, al punto da dimettersi da deputato e chiudere il suo palazzo in città per ritirarsi nella villa dell’Antella. Il Poggi, pur uscendone amareggiato, riprese la libera professione, ma dopo avere coniato, nel difendere il suo operato, un termine — micromania — che riassume in sé quell’incapacità fiorentina di pensare in grande di cui tuttora paghiamo le conseguenze. Ancora una volta chi ci va di mezzo è il postero.