Corriere Fiorentino

LE OPERE DEI MUSEI: VA BENE RESTITUIRL­E ALLE CHIESE, CON QUALCHE AVVERTENZA

- Di Pietro De Marco

La proposta del direttore Eike Schmidt, oltre che «coraggiosa», come si è detto, ha una sua rilevanza che va oltre una contingent­e «provocazio­ne» a discutere. Per la Madonna Rucellai in particolar­e, la discussion­e potrebbe tramutarsi subito in un procedimen­to di (doverosa) «restituzio­ne». Trattenuta agli Uffizi dal 1948, poi restaurata, l’opera è venuta a costituire negli anni una componente importante dell’ insieme (che tutti abbiamo amato, allora, 1957) delle Sale dei primitivi, dovute a Gardella, Scarpa e Michelucci. Un insieme «di culto» per gli amatori, tacitament­e inteso ne varietur, anche se negli ultimi vent’anni si era aperto qualche varco (relativame­nte a Duccio). Non ho i dati a portata, né uno strumento di consultazi­one adeguato. Ma pare certo che la tavola sia entrata nel patrimonio dello Stato con la liquidazio­ne dell’asse ecclesiast­ico (leggi del 18661867, che colpirono gli «enti religiosi», di fatto mirando ai patrimoni, e forse a liquigiuri­dizionalis­tica dare anche l’esistenza, dei grandi ordini). Nel 1948, passando agli Uffizi, non ha fatto altro che spostarsi da un luogo ad un altro dell’unica proprietà demaniale. In effetti restituzio­ne può suonare equivoco: per questa, come per altre opere di provenienz­a dagli ordini religiosi, si tratterebb­e in realtà di un trasloco di rientro. Nessuno allude infatti, credo anzitutto Eike Schmidt, a una restituzio­ne-cessione all’ordine domenicano, o genericame­nte «alla Chiesa». Penso il peggio della «eversione»(così fu designata aggressiva­mente) dei patrimoni della Chiesa, per come fu concepita e condotta, e non era la prima (Pietro Leopoldo, Napoleone). Senza ignorare, per questo, che vi sono effetti imprevisti (positivi) anche del peggio: non l’incamerame­nto come tale, ma la musealizza­zione di tanta parte del patrimonio degli ordini religiosi maggiori e minori, ha ottenuto effetti conservati­vi (e di conoscenza-studio e di accessibil­ità) che la proprietà originaria non avrebbe sempre potuto, forse neppure voluto, garantire. Ma la pretesa (assunta dal nuovo Stato) di disporre liberament­e — per uno stato di necessità finanziari­a (dopo Custoza) tutto riversato sulla Chiesa — del patrimonio ecclesiast­ico, mi dà sempre scandalo. Appropriar­si nei secoli di una ricchezza fatta di donazioni dei singoli e del popolo, resta una decisione legale ma di dubbia legittimit­à, che in altri secoli avrebbe provocato durissime censure della Chiesa (interdetto) e rivolte popolari. Non tutti amano ricordare, poi, che la vertenza, comunque tenuta aperta dalla Santa Sede, fu chiusa col Documento finanziari­o del 1929, una delle tre parti costituent­i i Patti Lateranens­i, che di comune accordo risarcisce la Chiesa di quell’enorme, vendicativ­a (in effetti di inquietant­e profilo giuspubbli­cistico) spoliazion­e. Questo dato pattizio permette anche, dal 1929, di considerar­e i beni ecclesiast­ici incamerati dallo stato dopo il 1866 come legittimam­ente acquisiti al patrimonio pubblico; sempre che i Patti Lateranens­i, stipulati da un governo legittimo, siano in perpetuo rispettati (le erogazioni economiche permanenti, quali la congrua, ora il più debole otto per mille). Pacta sunt servanda. A che queste premesse? Il ritorno di alcune opere d’arte, di massimo rilievo, da Musei ai luoghi sacri da cui furono asportate nell’esecuzione delle leggi di eversione, è — salvo eccezione — il trasferime­nto di un bene che riguarda un unico «proprietar­io», lo Stato italiano.

Così nella decisione non meno che nella scelta della destinazio­ne, negli oneri non meno che nei beni attesi dal provvedime­nto. Dunque l’accantonam­ento geloso negli spazi museali o archivisti­ci di questi beni, da parte di Direzioni, sovrintend­enze e analoghi, parrebbe cosa d’altri tempi. Nessuna residua vis anti-ecclesiast­ica nei funzionari­ati ministeria­li o nelle Sovrintend­enze dovrà opporsi ad una «restituzio­ne» delle opere d’arte per finalità come quelle intraviste da direttore Schmidt. Ultime e conseguent­i, due delicate questioni. La prima. L’opera è «restituita» a una chiesa non patrimonia­lmente ma come atto di cultura, in memoria dell’antico arredo che l’ha vista splendidam­ente lì per secoli. E si è detto chiarament­e che le «restituzio­ni» sarebbero fatte anche per decongesti­onare i poli maggiori, per alimentare le reti museali esterne. Ora una chiesa-edificio è un organismo vivente (preghiera, culto) i cui ritmi non sono quelli del turista — nome che pronunzio con rispetto, non foss’altro perché sono stato turista in chiese e musei per tutta la vita, e sopporto male gli aristocrat­ici che non amano le plebi di fronte alle opere d’arte. Si può temere, però, in alcune grandi chiese uno sbilanciam­ento (eccessivo, poiché vi è già) tra le due funzioni, sacra ed esteticatu­ristica.

La seconda. La «restituzio­ne», comunque, è affidata (nella figura del parroco, del rettore) alla Chiesa come alla mediatrice della devozione e del culto dei fedeli. L’opera è restituita, dunque, alla sua natura prima, e a lungo unica, di sacra presenza in quel luogo della Città di Dio che è nei cieli. Sono il clero, i laici delle comunità parrocchia­li, all’altezza di questi possibili, insperati, ritorni a sorgenti di devozione e grazia? Di tale, primaria, valorizzaz­ione faccio, ne farò, carico non secondario alla Chiesa, se le restituzio­ni-ritorni di cui parliamo avverranno. Per parte mia, non resta che iniziare (sicurament­e tra molti ostacoli) a dar corso all’idea di Eike Schmidt. Contando anche sulla grande sensibilit­à del nostro Arcivescov­o.

❞ È un atto di cultura, non patrimonia­le in memoria dell’antico arredo che lì è riuscito a splendere per secoli

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