LE OPERE DEI MUSEI: VA BENE RESTITUIRLE ALLE CHIESE, CON QUALCHE AVVERTENZA
La proposta del direttore Eike Schmidt, oltre che «coraggiosa», come si è detto, ha una sua rilevanza che va oltre una contingente «provocazione» a discutere. Per la Madonna Rucellai in particolare, la discussione potrebbe tramutarsi subito in un procedimento di (doverosa) «restituzione». Trattenuta agli Uffizi dal 1948, poi restaurata, l’opera è venuta a costituire negli anni una componente importante dell’ insieme (che tutti abbiamo amato, allora, 1957) delle Sale dei primitivi, dovute a Gardella, Scarpa e Michelucci. Un insieme «di culto» per gli amatori, tacitamente inteso ne varietur, anche se negli ultimi vent’anni si era aperto qualche varco (relativamente a Duccio). Non ho i dati a portata, né uno strumento di consultazione adeguato. Ma pare certo che la tavola sia entrata nel patrimonio dello Stato con la liquidazione dell’asse ecclesiastico (leggi del 18661867, che colpirono gli «enti religiosi», di fatto mirando ai patrimoni, e forse a liquigiuridizionalistica dare anche l’esistenza, dei grandi ordini). Nel 1948, passando agli Uffizi, non ha fatto altro che spostarsi da un luogo ad un altro dell’unica proprietà demaniale. In effetti restituzione può suonare equivoco: per questa, come per altre opere di provenienza dagli ordini religiosi, si tratterebbe in realtà di un trasloco di rientro. Nessuno allude infatti, credo anzitutto Eike Schmidt, a una restituzione-cessione all’ordine domenicano, o genericamente «alla Chiesa». Penso il peggio della «eversione»(così fu designata aggressivamente) dei patrimoni della Chiesa, per come fu concepita e condotta, e non era la prima (Pietro Leopoldo, Napoleone). Senza ignorare, per questo, che vi sono effetti imprevisti (positivi) anche del peggio: non l’incameramento come tale, ma la musealizzazione di tanta parte del patrimonio degli ordini religiosi maggiori e minori, ha ottenuto effetti conservativi (e di conoscenza-studio e di accessibilità) che la proprietà originaria non avrebbe sempre potuto, forse neppure voluto, garantire. Ma la pretesa (assunta dal nuovo Stato) di disporre liberamente — per uno stato di necessità finanziaria (dopo Custoza) tutto riversato sulla Chiesa — del patrimonio ecclesiastico, mi dà sempre scandalo. Appropriarsi nei secoli di una ricchezza fatta di donazioni dei singoli e del popolo, resta una decisione legale ma di dubbia legittimità, che in altri secoli avrebbe provocato durissime censure della Chiesa (interdetto) e rivolte popolari. Non tutti amano ricordare, poi, che la vertenza, comunque tenuta aperta dalla Santa Sede, fu chiusa col Documento finanziario del 1929, una delle tre parti costituenti i Patti Lateranensi, che di comune accordo risarcisce la Chiesa di quell’enorme, vendicativa (in effetti di inquietante profilo giuspubblicistico) spoliazione. Questo dato pattizio permette anche, dal 1929, di considerare i beni ecclesiastici incamerati dallo stato dopo il 1866 come legittimamente acquisiti al patrimonio pubblico; sempre che i Patti Lateranensi, stipulati da un governo legittimo, siano in perpetuo rispettati (le erogazioni economiche permanenti, quali la congrua, ora il più debole otto per mille). Pacta sunt servanda. A che queste premesse? Il ritorno di alcune opere d’arte, di massimo rilievo, da Musei ai luoghi sacri da cui furono asportate nell’esecuzione delle leggi di eversione, è — salvo eccezione — il trasferimento di un bene che riguarda un unico «proprietario», lo Stato italiano.
Così nella decisione non meno che nella scelta della destinazione, negli oneri non meno che nei beni attesi dal provvedimento. Dunque l’accantonamento geloso negli spazi museali o archivistici di questi beni, da parte di Direzioni, sovrintendenze e analoghi, parrebbe cosa d’altri tempi. Nessuna residua vis anti-ecclesiastica nei funzionariati ministeriali o nelle Sovrintendenze dovrà opporsi ad una «restituzione» delle opere d’arte per finalità come quelle intraviste da direttore Schmidt. Ultime e conseguenti, due delicate questioni. La prima. L’opera è «restituita» a una chiesa non patrimonialmente ma come atto di cultura, in memoria dell’antico arredo che l’ha vista splendidamente lì per secoli. E si è detto chiaramente che le «restituzioni» sarebbero fatte anche per decongestionare i poli maggiori, per alimentare le reti museali esterne. Ora una chiesa-edificio è un organismo vivente (preghiera, culto) i cui ritmi non sono quelli del turista — nome che pronunzio con rispetto, non foss’altro perché sono stato turista in chiese e musei per tutta la vita, e sopporto male gli aristocratici che non amano le plebi di fronte alle opere d’arte. Si può temere, però, in alcune grandi chiese uno sbilanciamento (eccessivo, poiché vi è già) tra le due funzioni, sacra ed esteticaturistica.
La seconda. La «restituzione», comunque, è affidata (nella figura del parroco, del rettore) alla Chiesa come alla mediatrice della devozione e del culto dei fedeli. L’opera è restituita, dunque, alla sua natura prima, e a lungo unica, di sacra presenza in quel luogo della Città di Dio che è nei cieli. Sono il clero, i laici delle comunità parrocchiali, all’altezza di questi possibili, insperati, ritorni a sorgenti di devozione e grazia? Di tale, primaria, valorizzazione faccio, ne farò, carico non secondario alla Chiesa, se le restituzioni-ritorni di cui parliamo avverranno. Per parte mia, non resta che iniziare (sicuramente tra molti ostacoli) a dar corso all’idea di Eike Schmidt. Contando anche sulla grande sensibilità del nostro Arcivescovo.
❞ È un atto di cultura, non patrimoniale in memoria dell’antico arredo che lì è riuscito a splendere per secoli