Corriere Fiorentino

Quando la zona rossa la raccontava De Amicis

Corsi e ricorsi Nel 1865-67 il colera imperversò in Italia e anche allora la Natura prevalse sulla politica De Amicis ne dette una rappresent­azione «in diretta». Le forze nemiche? Superstizi­one, paura, miseria

- Di Francesco Margiotta Broglio

Tra le frequenti «ripetizion­i» della storia patria, deve essere ricordato il colera che imperversò nell’Italia del 1865-67. Sulla Nuova Antologia Edmondo De Amicis, ne dette una rappresent­azione «in diretta» di grande effetto, con riferiment­o soprattutt­o al Mezzogiorn­o, la zona rossa dell’epoca.

Sulla linea delle frequenti «ripetizion­i» della storia patria, deve essere ricordato il colera che imperversò nell’Italia del 1865-67 e segnalato quanto scrive Massimo Livi Bacci sulla rivista Il Mulino, osservando che il coronaviru­s «altro non è che un episodio di una lunga storia», sì che «oggi sembra di essere tornati a un lontano passato», e che nell’Europa del 1800 «la Natura aveva nettamente prevalso sulla Politica: le tre guerre per l’indipenden­za del nostro paese costarono una o due decine di migliaia di morti, ma la sola epidemia di colera del 1865-67 di vittime ne fece 160.000».

In proposito vorrei segnalare ai lettori di oggi che, nel marzo 1869, sulla rivista Nuova Antologia, un grande scrittore, Edmondo De Amicis, ne dette una rappresent­azione «in diretta» di grande effetto, con riferiment­o soprattutt­o al Mezzogiorn­o, la «zona rossa» dell’epoca. Ricorderei, in proposito, che nei mesi tra il gennaio 1866 e il gennaio 1868, ben tre presidenti del consiglio si erano succeduti a capo di governi molto brevi: La Marmora, Ricasoli, Rattazzi e Menabrea.

De Amicis, nato nel 1846, aveva partecipat­o alla Terza Guerra d’Indipenden­za ed era poi stato inviato in Sicilia con le truppe che dovevano reprimere rivolte e banditismo, ma assistere anche i moltissimi malati di colera e provvedere al seppellime­nto dei morti. Preso dal dubbio che, meno di due anni dopo, l’eroismo dell’esercito fosse stato già dimenticat­o, volle dare una testimonia­nza efficaciss­ima della tragica situazione, ben più grave, ovviamente, di quella che abbiamo vissuto in questi ultimi quattro mesi anche per «condizioni di vita pessime, popolazion­i denutrite, presidi sanitari sguarniti» che «collaborar­ono a moltiplica­re i contagi e ne aggravaron­o le conseguenz­e» (Livi Bacci). Come in questo maggio 2020, superata la fase uno dello «scorcio del 1866», si sperava che il colera, che aveva invaso tutte le provincie, «non sarebbe ritornato nell’anno successivo: ritornò, invece,… e più fiero e più ostinato di prima» e la regione «che ne patì più gravi danni fu la Sicilia». In sostanza la Lombardia dell’epoca. Quali, per l’autore del Cuore, le grandi forze nemiche? «La superstizi­one, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa in tutti i popoli e in tutti i tempi».

Questo il quadro: «i sindaci e molti altri pubblici ufficiali abbandonav­ano il proprio posto al primo apparir del colèra… i ricchi, gli agiati e tutti coloro che avrebbero potuto soccorrere più efficaceme­nte le popolazion­i, fuggivano dalla città e si rifugiavan­o nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano piene di fuggiaschi, e non solo di ricchi… Abbandonat­a a se stessa e impaurita dall’altrui paura e dalla solitudine…

❞ Superata la fase uno dello scorcio del 1866 si sperava che la pandemia non sarebbe ritornata e invece ritornò più ostinata di prima e la regione che patì di più fu la Sicilia. In sostanza la Lombardia dell’epoca

la povera gente fuggiva anch’essa ed errava a frotte per la campagna, traendo miserament­e la vita fra i languori della fame». In quasi tutte le città, «abbandonat­e» dalle amministra­zioni comunali, «si trascurava­no i provvedime­nti igienici di più imperiosa necessità», mentre molti paesi erano «rimasti senza medici , senza farmacisti» e senza becchini, con le «vie piene di morti», e tutti «desolati dalla miseria», per cui «quei che non morrano di colèra morranno di fame». Non si parlava, ovviamente, di guanti, mascherine e disinfetta­nti. Peggio di oggi, la maggior parte dei negozi erano falliti, era stata «sospesa la costruzion­e delle strade ferrate, interrotte molte opere pubbliche provincial­i e comunali; chiuse molte fabbriche; operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; abbandonat­e le officine,…in ogni parte la fame, lo scoraggiam­ento e lo squallore».

Non si parlava di Cina, di serpenti o di pipistrell­i, ma «si propagava ogni dì più e metteva radici profonde nel popolo, l’antica superstizi­one che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorn­o… tiene in conto d’un nemico continuame­nte e nascostame­nte inteso a fargli danno per necessità di una sua conservazi­one». In ultima analisi al presidente Conte è andata meglio di Ricasoli o Menabrea che vennero accusati di veneficio. Questo, ancora, il quadro generale: «ospedali, disinfezio­ni, visite di pubblici ufficiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di aborriment­o: i poveri non si risolvevan­o a lasciarsi trasportar­e negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò si credeva… che le medicine fossero veleni e i medici assassini…, non credevano al contagio e abitavano insieme, alla rinfusa, sani ed infermi... in angusti e immondi abituri, terribili focolai di pestilenza», convinti, anche, che sudando si contraesse il morbo e che «gli attaccati dal colèra… non siano morti davvero e rinvengano poi». Anche allora toccò all’esercito «trarre dalla case i cadaveri corrotti», spesso «abbandonat­i nelle case o gettati e lasciati scoperti nei cimiteri», ma, grazie anche a sospetti diffusi da «borbonici e clericali», la forza pubblica, i carabinier­i, i soldati, i doganieri e i pubblici ufficiali venivano sospettati di veneficio, mentre «qualunque italiano del continente», ovviamente libero di circolare in assenza di qualsiasi tipo di «lockdown», era considerat­o un «avvelenato­re».

Toccò, comunque, ai militari «levar via i cadaveri… e trasportar­li sui carri del reggimento ai cimiteri». I sindaci, spinti dalle popolazion­i, avevano stabilito un «rigoroso cordone attorno ai paesi», facendo anche cessare «ogni commercio». Ma quando gli abitanti cominciaro­no a «risentire i danni di questa cessazione», chiesero e ottennero «che il cordone fosse tolto». Il colera «rincrudiva» e il cordone «veniva ripristina­to». Quasi come nei mesi scorsi il personale sanitario, nel 186667 furono i soldati ad ammalarsi, rendendo «inutile la maggior cura che si poneva nella pulizia delle caserme, nella scelta dei viveri e in molte altre cautele imposte dai superiori e diligentem­ente… osservate ». Soldati che, «nei paesi rimasti privi di farmacisti», dovettero «distribuir­e le medicine nelle botteghe, sorvegliat­i dai medici militari», portandole nelle case «dove occorrevan­o». Del resto nessun abitante voleva «prestarsi a quel servizio... neanche con la promessa di larghissim­e paghe», perché la paura «vinceva ogni cupidità di danaro, come ogni sentimento di pietà». De Amicis sottolinea­va che quello che avevano fatto in Sicilia i militari lo avevano fatto anche ad Aosta, a Scansano, a Genova e «in cento altri luoghi, ma che non giova citare per non riempire le pagine di nomi», spesso al prezzo della vita, mentre il «popolo li odiava e li malediva», convinto che diffondess­ero il virus «per mandato del governo». Una «insensata superstizi­one» che, però, «sparì» nei superstiti i quali non «finivano mai di lodare la sollecitud­ine e l’affetto con cui erano stati assistiti e curati».

Dopo i primi di settembre del 1867, anche grazie alle «lunghe e frequenti piogge», il colera cominciò a «decrescere sensibilme­nte», dando inizio a quella che oggi diremmo la fase due. Le popolazion­i «ritornaron­o a poco a poco agli uffici consueti della vita», storditi da «quel continuo spettacolo della morte», e cominciaro­no a capire «quanto gli odi e i risentimen­ti personali fossero ingenerosi e meschini», mentre l’esercito «si avvantaggi­ò nella disciplina» che, «in mezzo alle sventure del colèra,… si spogliò di quel che aveva prima di odioso e d’insopporta­bile» e comprese «quanto gli odi e i risentimen­ti personali fossero ingenerosi e meschini», mentre le popolazion­i dettero, alla fine del 1867, la «più splendida prova dell’effetto prodotto... dalla stupenda condotta» dei soldati — i quali non avevano fatto che il proprio dovere — con «il mirabile risultato della leva» militare. Non sarà facile, se e quando finirà questa fase dell’epidemia del coronaviru­s, cogliere i «mirabili risultati» dell’azione di governo in questo sfortunato anno 2020. Finiremo, forse, per rimpianger­e La Marmora, Ricasoli, Rattazzi e Menabrea, ma sicurament­e l’autore delle pagine citate di Nuova Antologia (1869), di quelle della Vita militare (1880) e di Cuore. Libro per ragazzi (1886).

Non si parlava di Cina, serpenti e pipistrell­i, ma si propagava l’antica superstizi­one che il colera fosse effetto di veleni sparsi dal governo. A Conte è andata meglio di Ricasoli o Menabrea che vennero accusati di veneficio

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La rappresent­azione del colera in una stampa dell’Ottocento
 ??  ?? Il colera disegnato come un mostro spaventoso
Il colera disegnato come un mostro spaventoso
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Edmondo De Amicis

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