La scalata del capo ultrà
La storia Simone Ceri è passato dalla curva alla presidenza del Grosseto, portandolo di nuovo in Serie C dopo cinque anni: «Ma voglio rimanere fuori dal business del pallone»
Da capo degli ultrà a presidente che riporta la sua squadra nei professionisti. Non è un film, ma la storia di Simone Ceri. Una favola forse unica. Per il lieto fine si aspetta solo che domani il Consiglio Federale ratifichi la decisione di promuovere in serie C le prime di ogni girone della Lega Dilettanti: come la Lucchese, in testa al gruppo A, e il Grosseto appunto, al comando del girone E.
Nel nuovo centro sportivo di Roselle c’è già stata una festa a sorpresa, compatibilmente con le limitazioni di questo periodo, non sono voluti mancare i vecchi compagni di Curva di «Simone», come lo chiamano tutti. «Ancora devo rendermi conto, anche perché tutto ha un retrogusto strano — racconta — è beffardo vincere senza tifosi, perché il calcio è loro». Parole da patron (in coabitazione con suo zio Mario) differente. «Cosa è il calcio per me? Croce e delizia, dalla prima volta a 8 anni a oggi che ne ho 48, a parte i Daspo non c’è stata domenica in cui non sia stato alla partita». Dal passato turbolento al presente di imprenditore e dirigente di successo, che condivide con lo zio la responsabilità di portare avanti l’azienda di famiglia (la Tosco Service, impresa di pulizie che dà lavoro ad oltre 100 persone) e da 3 stagioni il Grosseto.
Da quando hanno raccolto il Grifone morente dopo la sciagurata parentesi americana seguita all’addio di Piero
Camilli, di cinque anni fa, usando il titolo sportivo della società della frazione di Roselle con cui avevano scalato dalla Terza categoria all’Eccellenza. «Con Mario ci completiamo: lui ha giocato una vita, io l’ho passata sugli spalti. Evito le interviste post partita per non parlare a caldo, la tribuna autorità non so cosa sia: la partita la vivo da solo, in un angolo a bordo campo, spesso con mio figlio. Per me il calcio è questo, di chi si mangia il panino e soffre, sotto la pioggia, non di quello che sta con i piedi sul divano davanti ad una lasagna e guarda una gara dal suo salotto, quello non è pallone». Una visione romantica, ma allo stesso tempo estremamente concreta. «Meglio un mutuo per andare in serie B o provare a costruire qualcosa? Noi abbiamo fatto questo». Si guarda intorno e gli brillano gli occhi a mostrare il centro sportivogioiello inaugurato da pochi mesi, il più grande della Toscana dopo la fucina di talenti dell’Empoli a Monteboro.
«Il sogno è puntare sui giovani per creare un’identità, come c’è a Bergamo con l’Atalanta, a Firenze con i viola, la città che è un tutt’uno con i colori della squadra. Lavorare sui bambini per fare in modo che a 12 anni prendano la bici e vengano allo stadio». Ha vinto tutti i campionati dilettantistici, costruito la «casa» del Grifone, lo ha riportato nei pro dopo un lustro, e adesso? «Il prossimo obiettivo è soffrire, per salvarsi con le nostre poche possibilità: sacrificio e ginocchia sbucciate, io questo chiedevo da tifoso». In Italia però contano solo i risultati. «Ma quelli arrivano se hai dei valori: quest’anno da neo promossi partivamo per la salvezza e invece... Con sette titolari di Grosseto, la maggior parte della rosa made in Maremma. Per quanto possibile voglio tenermi fuori dal sistema che vede il pallone come un business, vedremo se nei professionisti sarà possibile. Di certo non lasceremo mai il Grosseto in mano al primo sciacallo che passa».