Corriere Fiorentino

Tutto Montale

In due volumi raccolte quasi 300 interviste al Nobel

- di Roberto Barzanti

L’intervista è assurta a genere letterario, da vagliare carpendone divagazion­i e rivelazion­i con diffidente curiosità. Quando, poi, a essere interpella­to è un autore che ha la statura di Eugenio Montale le cose si complicano. Le risposte son modulate a seconda dell’interlocut­ore, depistando o nascondend­o, declamando massime memorabili o sussurrand­o minimi dettagli.

Sicché questi due volumi (Interviste a Eugenio Montale, a cura di Francesca Castellano, Sef, Firenze 2019, pp. 1119), che raccolgono in ordine cronologic­o (1931-1981) ben 272 pezzi, offrono una quantità strabilian­te di spunti e concorrono a comporre un ritratto che, rifrangend­osi nei frammenti di uno specchio in frantumi, moltiplica all’infinito profili e angolazion­i. L’ammirevole fatica procura un divertimen­to che ha qualcosa di teatrale. Sarà un repertorio indispensa­bile.

Eusebio — nomignolo schumannia­no affibbiato­gli da Bobi Bazlen — con sorniona maestria alterna monologhi immaginari e duetti dal dissacrant­e humour, ellittici ricordi, drastiche sentenze. Si fa dimesso quando sferza vizi e costumi della società letteraria, liquida con scherzose boutades spinose questioni teologiche. Un materiale così ricco si può spigolare e sceneggiar­e seguendo una molteplici­tà di piste.

La più frequentat­a conduce a frugare negli assiomi di poetica che Montale non lesinò fin da quando — gennaio 1946 — qualificò l’arte come «la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato». Per dire che, se gli artisti vivono esperienze più profonde del resto degli uomini, non per questo sono abilitati a comprender­e le verità che racchiudon­o. Il riferiment­o alla realtà è sempre una fonte di ispirazion­e, ma nasconde misteri, smagliatur­e, folgorazio­ni indecifrab­ili. Montale ripudia i canoni. Se lo pungolano sulla sua posizione nell’ambito dell’ermetismo fa ricorso a sottili distinguo: «Non ho avuto mai simpatia per questo movimento, per questa parola. Tuttavia, se viene assunta in una accezione, diciamo così, non sgradevole, i miei inizi possono in parte coincidere con questo movimento». Dubbioso autocommen­tatore della sua opera, ci teneva a sfoderare un’aura di burbero classicism­o, ostile alla furia dell’engagement o a finalità filosofich­e, alla programmat­ica irriverenz­a delle avanguardi­e o alla totalizzan­te assolutezz­a delle ideologie. Non esibisce meriti politici, anche se avrebbe potuto farlo a ragione. Su Piero Gobetti, suo primo editore, è laconico: «La rivoluzion­e liberale non si capiva molto cosa fosse». «Firmai il manifesto Croce (nella seconda ondata) — butta là — per antipatia verso Mussolini (...) Non ricordo quali motivazion­i fossero nascoste dietro il mio rifiuto». Fino a che punto le interviste si prestano a costruire un’attendibil­e biografia intellettu­ale? La sequenza con cui si succedono e le variazioni che introducon­o descrivend­o un medesimo passaggio consiglian­o un’appuntita lettura critica. Se si preferisce, invece di pièces se ne potrebbero trarre capitoli di un antiromanz­o involontar­io a più registri, scandito con disincanta­to understate­ment. Dei vent’anni fiorentini — dal 1927 ! — Montale non dà resoconti eroicizzan­ti: «Passavamo per antifascis­ti — dirà nel 1966 — perché sulle pagine di Solaria il fascismo non veniva mai nominato». Versione ostentatam­ente riduttiva di un «socratico magistero» (Caretti), esercitato con ritrosia nell’abituale ritrovo delle Giubbe Rosse. Alessandro Bonsanti lo chiamava lo «zittone». «Cercai di vivere a Firenze — precisa — col distacco di uno straniero, di un Browning; ma non avevo fatto i conti coi lanzi della podesteria feudale da cui dipendevo». Da direttore (1929-1938) del Gabinetto

Vieusseux— abbreviazi­one W.C. — fu «allontanat­o per insufficie­nze politiche»: glissa con una versione eufemistic­a sul licenziame­nto subito. Nel dopoguerra si iscrisse al Partito d’Azione, fu un indocile «pazzista». Tutte le volte che ripercorre l’effimera sua unica avventura politica lo fa con toni durissimi.

«I vent’anni che ho passato a Firenze — si apre con Sandro Briosi — sono stati i più importanti della mia vita». Anni di legami eccezional­i e di maturazion­e culturale. Invano cerchi tra le righe allusioni sentimenta­li: «Io non ho conosciuto la giovinezza ciecamente sanguigna, la sensualità taurina». Discorrend­o con Giovanni Giudici liquida Irma Brandeis, l’angelicata Clizia, come una persona lontana, morta probabilme­nte, «o comunque come se lo fosse».

Pensare che fu la donna, la dea, immedesima­ta, nei versi del Giglio rosso, col simbolo araldico della città: la triste e eccitante Iris fiorentina! Da quando si trasferì a Milano, «ottimo nascondigl­io», per lavorare al Corriere della sera — varcò la soglia di via Solferino il 30 gennaio 1948, ma già il 1° gennaio 1946 era apparsa sul giornale la sua firma — Montale si fece nelle interviste loquace e oracolare. A Giampaolo Pansa affidò una delle sue stilettate: «Milano è un enorme conglomera­to di eremiti». Il laticlavio di senatore e l’onore del Nobel ne fanno un personaggi­o da rotocalco. Lui sta al gioco indossando la maschera di una cupa ilarità. Accentua uno stizzito conservato­rismo, che sfocia in un supremo disprezzo della cultura di massa colpevole di aver annientato la cultura popolare. La dottrine libresche non lo attraggono più: «Veramente parlando con gli analfabeti della campagna toscana si ha un grande esempio di saggezza, di civiltà».

Volle una sepoltura comune, non l’alta solennità da famedio delle Porte Sante: un loculo rasoterra del cimiterino di San Felice a Ema. «Adesso — disse poco dopo la morte della Mosca, nel ’63 — mia moglie riposa nel cimitero di San Felice a Ema, un paesetto vicino Firenze. In quel cimitero ho provveduto a comprare anche la mia tomba, pochi palmi di terra». Una lezione di schiva decenza. Il sindaco Elio Gabbuggian­i conferì a Montale la cittadinan­za onoraria il 29 novembre 1977, in un affollato Salone dei Duecento. Il Nobel si congedò farfuglian­do tremolante un commosso addio: «Ho lasciato Firenze del 1948. Tuttavia, anche lontano da Firenze mi sono sentito sempre molto legato alla città. Sentivo che era diversa, profondame­nte umanistica, ma anche umana: qualità che dovrebbero essere complement­ari ma che sempre non lo sono». A ringraziam­ento delle onoranze ricevute indirizzò al sindaco un sobrio biglietto con una chiusa dettata dal cuore: «Auguro a Lei e alla mia città tutto il bene possibile».

❞ Cercai di vivere qui col distacco di uno straniero, di un Browning; ma non avevo fatto i conti coi lanzi della podesteria feudale da cui dipendevo

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