Tutto Montale
In due volumi raccolte quasi 300 interviste al Nobel
L’intervista è assurta a genere letterario, da vagliare carpendone divagazioni e rivelazioni con diffidente curiosità. Quando, poi, a essere interpellato è un autore che ha la statura di Eugenio Montale le cose si complicano. Le risposte son modulate a seconda dell’interlocutore, depistando o nascondendo, declamando massime memorabili o sussurrando minimi dettagli.
Sicché questi due volumi (Interviste a Eugenio Montale, a cura di Francesca Castellano, Sef, Firenze 2019, pp. 1119), che raccolgono in ordine cronologico (1931-1981) ben 272 pezzi, offrono una quantità strabiliante di spunti e concorrono a comporre un ritratto che, rifrangendosi nei frammenti di uno specchio in frantumi, moltiplica all’infinito profili e angolazioni. L’ammirevole fatica procura un divertimento che ha qualcosa di teatrale. Sarà un repertorio indispensabile.
Eusebio — nomignolo schumanniano affibbiatogli da Bobi Bazlen — con sorniona maestria alterna monologhi immaginari e duetti dal dissacrante humour, ellittici ricordi, drastiche sentenze. Si fa dimesso quando sferza vizi e costumi della società letteraria, liquida con scherzose boutades spinose questioni teologiche. Un materiale così ricco si può spigolare e sceneggiare seguendo una molteplicità di piste.
La più frequentata conduce a frugare negli assiomi di poetica che Montale non lesinò fin da quando — gennaio 1946 — qualificò l’arte come «la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato». Per dire che, se gli artisti vivono esperienze più profonde del resto degli uomini, non per questo sono abilitati a comprendere le verità che racchiudono. Il riferimento alla realtà è sempre una fonte di ispirazione, ma nasconde misteri, smagliature, folgorazioni indecifrabili. Montale ripudia i canoni. Se lo pungolano sulla sua posizione nell’ambito dell’ermetismo fa ricorso a sottili distinguo: «Non ho avuto mai simpatia per questo movimento, per questa parola. Tuttavia, se viene assunta in una accezione, diciamo così, non sgradevole, i miei inizi possono in parte coincidere con questo movimento». Dubbioso autocommentatore della sua opera, ci teneva a sfoderare un’aura di burbero classicismo, ostile alla furia dell’engagement o a finalità filosofiche, alla programmatica irriverenza delle avanguardie o alla totalizzante assolutezza delle ideologie. Non esibisce meriti politici, anche se avrebbe potuto farlo a ragione. Su Piero Gobetti, suo primo editore, è laconico: «La rivoluzione liberale non si capiva molto cosa fosse». «Firmai il manifesto Croce (nella seconda ondata) — butta là — per antipatia verso Mussolini (...) Non ricordo quali motivazioni fossero nascoste dietro il mio rifiuto». Fino a che punto le interviste si prestano a costruire un’attendibile biografia intellettuale? La sequenza con cui si succedono e le variazioni che introducono descrivendo un medesimo passaggio consigliano un’appuntita lettura critica. Se si preferisce, invece di pièces se ne potrebbero trarre capitoli di un antiromanzo involontario a più registri, scandito con disincantato understatement. Dei vent’anni fiorentini — dal 1927 ! — Montale non dà resoconti eroicizzanti: «Passavamo per antifascisti — dirà nel 1966 — perché sulle pagine di Solaria il fascismo non veniva mai nominato». Versione ostentatamente riduttiva di un «socratico magistero» (Caretti), esercitato con ritrosia nell’abituale ritrovo delle Giubbe Rosse. Alessandro Bonsanti lo chiamava lo «zittone». «Cercai di vivere a Firenze — precisa — col distacco di uno straniero, di un Browning; ma non avevo fatto i conti coi lanzi della podesteria feudale da cui dipendevo». Da direttore (1929-1938) del Gabinetto
Vieusseux— abbreviazione W.C. — fu «allontanato per insufficienze politiche»: glissa con una versione eufemistica sul licenziamento subito. Nel dopoguerra si iscrisse al Partito d’Azione, fu un indocile «pazzista». Tutte le volte che ripercorre l’effimera sua unica avventura politica lo fa con toni durissimi.
«I vent’anni che ho passato a Firenze — si apre con Sandro Briosi — sono stati i più importanti della mia vita». Anni di legami eccezionali e di maturazione culturale. Invano cerchi tra le righe allusioni sentimentali: «Io non ho conosciuto la giovinezza ciecamente sanguigna, la sensualità taurina». Discorrendo con Giovanni Giudici liquida Irma Brandeis, l’angelicata Clizia, come una persona lontana, morta probabilmente, «o comunque come se lo fosse».
Pensare che fu la donna, la dea, immedesimata, nei versi del Giglio rosso, col simbolo araldico della città: la triste e eccitante Iris fiorentina! Da quando si trasferì a Milano, «ottimo nascondiglio», per lavorare al Corriere della sera — varcò la soglia di via Solferino il 30 gennaio 1948, ma già il 1° gennaio 1946 era apparsa sul giornale la sua firma — Montale si fece nelle interviste loquace e oracolare. A Giampaolo Pansa affidò una delle sue stilettate: «Milano è un enorme conglomerato di eremiti». Il laticlavio di senatore e l’onore del Nobel ne fanno un personaggio da rotocalco. Lui sta al gioco indossando la maschera di una cupa ilarità. Accentua uno stizzito conservatorismo, che sfocia in un supremo disprezzo della cultura di massa colpevole di aver annientato la cultura popolare. La dottrine libresche non lo attraggono più: «Veramente parlando con gli analfabeti della campagna toscana si ha un grande esempio di saggezza, di civiltà».
Volle una sepoltura comune, non l’alta solennità da famedio delle Porte Sante: un loculo rasoterra del cimiterino di San Felice a Ema. «Adesso — disse poco dopo la morte della Mosca, nel ’63 — mia moglie riposa nel cimitero di San Felice a Ema, un paesetto vicino Firenze. In quel cimitero ho provveduto a comprare anche la mia tomba, pochi palmi di terra». Una lezione di schiva decenza. Il sindaco Elio Gabbuggiani conferì a Montale la cittadinanza onoraria il 29 novembre 1977, in un affollato Salone dei Duecento. Il Nobel si congedò farfugliando tremolante un commosso addio: «Ho lasciato Firenze del 1948. Tuttavia, anche lontano da Firenze mi sono sentito sempre molto legato alla città. Sentivo che era diversa, profondamente umanistica, ma anche umana: qualità che dovrebbero essere complementari ma che sempre non lo sono». A ringraziamento delle onoranze ricevute indirizzò al sindaco un sobrio biglietto con una chiusa dettata dal cuore: «Auguro a Lei e alla mia città tutto il bene possibile».
❞ Cercai di vivere qui col distacco di uno straniero, di un Browning; ma non avevo fatto i conti coi lanzi della podesteria feudale da cui dipendevo