IL DOTTOR MANI PULITE CHE SALVÒ LE MAMME
❞ In questi lunghi mesi di quarantena abbiamo capito che il decalogo dei virologi è composto da tre comandamenti:
1) Mettetevi la mascherina 2) State distanti almeno un metro 3) Lavatevi bene le mani e disinfettatele.
Al sottoscritto, che da bambino ha attraversato guerra e dopoguerra, l’ordine di lavarsi le mani ha fatto tornare in mente un rituale casalingo, celebrato quando il medico condotto — dottor Talentoni (non era un soprannome, e talento ne aveva tanto davvero) — veniva a casa a visitarmi, perché avevo un po’ di febbre. Lo aspettavano, oltre all’ammalato, un asciugamano di lino bianco ricamato e ben piegato e una saponetta nuova. Lui arrivava, posava la sua borsa di pelle lucida e andava a lavarsi le mani, poi mi visitava. Quindi si lavava le mani un’altra volta e prima di salutare dava più consigli che medicine, perché ce n’erano poche. Fu allora che imparai a lavarmi le mani.
Soltanto molti anni dopo scoprii che il dottor Talentoni aveva un illustre predecessore: Ignaz Fülöp Semmelweis, il primo al mondo a scoprire che se i medici si fossero lavati e disinfettati le mani prima di assistere le partorienti, ne avrebbero salvate migliaia anziché farle morire per la cosiddetta «febbre puerperale». Allora ritenuta una malattia causata da nuvole di miasmi assassini o da misteriose influenze cosmo-telluriche. Era il 1847 e Semmelweis aveva ragione ma, nonostante l’evidenza, i suoi colleghi non vollero ascoltarlo. Lo derisero e lo denigrarono finché andò in paranoia e poi in manicomio, dove fu «curato» a suon di botte che gli procurarono una setticemia assassina. Oggi è considerato uno dei grandi della medicina ed è ricordato come «il salva-mamme».
Per capire come questo sia potuto accadere bisogna ripercorrere le tappe della sua odissea. Ignaz Fülöp Semmelweis nacque nel 1818 a Buda (Ungheria), e suo padre voleva farne un giudice militare, ma lui si laureò in medicina, nel 1844, all’Università di Vienna, con una tesi scritta in latino, Tractatus de vita
plantarum, introdotta dalla citazione «Nullum venenum in manu medici». Anni dopo dovette amaramente constatare che qualche volta i medici il veleno lo avevano davvero nelle mani.
Con la laurea in tasca e tanta voglia di mettersi un camice bianco, nel 1846 iniziò il tirocinio presso la clinica chirurgica e in quella ostetrica dell’Allgemeines Krankenhaus, l’ospedale più prestigioso del mondo, la cui organizzazione interna giocò un ruolo cruciale in tutta la vicenda. Le due divisioni di ostetricia erano sistemate in due padiglioni adiacenti. Nella prima, diretta dal professor Johann Klein, le partorienti erano assistite da studenti e medici maschi; nella seconda, diretta dal dottor Franz Xaver Bartsch, venivano seguite solo dalle levatrici, spesso ex prostitute.
In ciascuna divisione si registravano tre-quattromila parti l’anno, e mentre nella prima i decessi per febbre puerperale erano sei-settecento, nella seconda divisione erano solo sessanta. Il professor Klein, diretto superiore di Semmelweis, non si sentiva affatto responsabile della strage continua perché l’attribuiva a un misterioso e malefico influsso che s’accaniva sulla sua divisione. Il giovane neolaureato si buttò nel lavoro con passione ma, per una questione burocratica, dopo otto mesi gli fu revocato l’incarico di assistente.
Riuscì comunque a ottenere nuovamente il posto anche se il professor Klein lo riteneva insubordinato e fautore di idee e iniziative più che discutibili.
Insomma non lo sopportava. Ogni giorno doveva fare autopsie, visitare nuove pazienti e seguire gli studenti, ma la sua mente rimuginava sui numeri della morte nella prima divisione. Questo lo spinse a osservare ogni cosa che succedeva dentro e fuori l’ospedale e notò che la febbre puerperale colpiva in modo diverso: le signore benestanti che partorivano a casa morivano «solo» nel 35 per cento dei casi, le popolane che partorivano all’ospedale arrivavano a quote dell’80-90 per cento. «Ma tutto — scrisse Semmelweis — era dubbio, senza spiegazione, oscuro, solo il numero dei decessi era una realtà incontestabile», soprattutto quelli che avvenivano nella prima divisione. Nel tentativo di individuare il perché, prese in esame anche le ipotesi più inverosimili. In particolare una: la paura di morire, e il primo sospettato fu un prete che, quando portava l’estrema unzione alle moribonde della seconda divisione, attraversava sempre la prima, agitando una campanella che suonava a morto. Così facendo — sospettò Semmelweis — le partorienti della prima divisione subivano il doppio del macabro scampanio rispetto a quelle della seconda, che vedevano il prete solo quando andava da loro. Il religioso fu costretto a cambiare percorso, ma la mortalità rimase la stessa.
Semmelweis aveva 29 anni e sembrava in un vicolo cieco; in realtà era alla vigilia della grande scoperta che avrebbe salvato migliaia di mamme. Tutto gli apparve chiaro all’improvviso, nel 1847, esaminando la cartella clinica di un suo amico che era deceduto dopo essersi ferito a una mano mentre eseguiva un’autopsia.
I sintomi della malattia e il referto necroscopico del poveretto erano identici a quelli delle donne morte di febbre puerperale. La ragione era che i medici, appena finite le autopsie, andavano direttamente ad assistere le partorienti della prima divisione, lavandosi le mani col sapone ma senza disinfettarle e in questo modo le infettavano con «particelle di cadavere», che oggi definiremmo batteri patogeni. Questo spiegava l’alto numero dei decessi nella prima divisione e quello più basso nella seconda, gestita dalle levatrici che non facevano autopsie. Semmelweis fece sistemare lavabi all’ingresso delle due divisioni e impose a tutti di lavarsi le mani con acqua calda e sapone e poi disinfettarle con una soluzione di cloruro di calcio. Operazioni che dovevano ripetere prima e dopo ogni intervento. Nonostante l’avversione e la resistenza passiva di quasi tutti i colleghi, indignati dal sentirsi trattati da sudicioni, i risultati non mancarono: in un mese la mortalità scese al 3 per cento e l’anno dopo allo 0,85.
Un successo clamoroso che gli costò caro. Il suo contratto in scadenza non fu rinnovato, e gli fu negata anche la libera docenza in ostetricia che aveva richiesto. L’ambiente umano intorno a lui era ormai diventato troppo ostile anche se illustri scienziati, valutati i numeri dei decessi, parlarono di grande progresso della scienza medica, mentre i contrari dissero che si trattava di normali oscillazioni statistiche. Un’ostilità senza spiegazioni? Forse no. Per tanti medici di fama riconoscere che aveva ragione lui sarebbe equivalso ad ammettere d’essere i responsabili della morte di migliaia di giovani donne.
Amareggiato, deluso e sempre più cupo, il dottor Mani Pulite fronteggiò ancora per qualche mese il disprezzo dei colleghi, che l’accusarono persino di aver falsificato i numeri. Poi lasciò l’ospedale viennese senza nemmeno salutare e tornò a Buda, dove, nel 1855, ottenne importanti risultati lavorando nell’ospedale di San Roque de Pest, si sposò e tre anni dopo pubblicò un volume di 540 pagine sulle cause della febbre puerperale. Ma fu accolto tra indifferenza e critiche che lo ferirono profondamente. «Quando rivedo il passato — scrisse — posso solo dissipare la tristezza che mi invade immaginando quel futuro felice in cui l’infezione sarà bandita […] La convinzione che quel momento debba arrivare inevitabilmente prima o poi mi rallegrerà al momento di morire.»
Il suo stato d’animo peggiorò rapidamente, scatenando reazioni incontrollate. Si scagliò contro i suoi detrattori, scrisse «lettere aperte» accusandoli di ottusità, diffuse volantini che invitavano i cittadini a non rivolgersi più agli ospedali dov’era più facile morire che guarire, accusò apertamente di assassinio i medici che operavano nelle divisioni di ostetricia. Tutte cose che rispecchiavano la realtà in cui Semmelweis s’era ritrovato a combattere, ma espresse in modo così violento e aggressivo da fargli perdere anche l’appoggio dei pochi amici rimasti.
Quando la paranoia divenne incontrollabile, la moglie chiese aiuto agli psichiatri che non fecero altro che mandarlo in un manicomio da cui non uscì più. Morì nel 1865, a quarantasette anni. Di lui si perse quasi il ricordo, e le sue scoperte furono ignorate per anni. Solo ai primi del Novecento la città di Budapest gli dedicò un monumento e dette il suo nome alla clinica ostetrica dell’università.