Longhi, che inventò Caravaggio
L’omaggio Cinquant’anni fa moriva il grande critico d’arte che scoprì il Merisi e che lasciò qui la sua collezione Il ricordo della direttrice del Bargello mentre Roma gli dedica una mostra con opere dalla fondazione fiorentina
Il 3 giugno 1970 moriva Roberto Longhi, tra i maggiori studiosi di storia dell’arte del Novecento e con una sfera di influenza culturale di amplissimo spettro, che rese Firenze centro d’eccellenza per la storia dell’arte italiana.
Nato ad Alba nel 1890, Longhi si trasferì a Torino per l’Università, frequentando non soltanto lezioni di storia dell’arte, ma anche di diritto di Luigi Einaudi. Si laureò con Pietro Toesca — giovane allievo di Adolfo Venturi —con una tesi su Michelangelo Merisi da Caravaggio, ritenuto all’epoca artista di secondo piano. Nel 1910 Longhi viaggiò fino in Sicilia per studiare da vicino le opere pittoriche del Merisi e, dopo la laurea, fu ammesso alla Scuola di Specializzazione a Roma con Adolfo Venturi, avviando poco dopo la collaborazione con le riviste La Voce e L’Arte, dove pubblicò in uno stretto giro di anni articoli fondanti per lo studio dei pittori caravaggeschi: Mattia Preti, Battistello Caracciolo, Orazio e Artemisia Gentileschi. In quegli stessi anni, si imponeva non soltanto come studioso e critico di primo piano del Seicento, ma pubblicava anche importanti testi sull’avanguardia futurista, dedicando nel 1914 un fondamentale contributo alla scultura di Umberto Boccioni. Contemporaneamente all’esperienza d’insegnamento nei licei Tasso e Visconti di Roma, Longhi pubblicava saggi e articoli, spaziando dal gotico lombardo a Courbet e Cezanne. Una tappa importante del percorso del giovane storico dell’arte fu l’incontro nel 1918 con il conte Alessandro Contini Bonacossi, del quale diventò consulente per l’acquisto di opere d’arte e che accompagnò in un viaggio in Europa tra il 1920 e il 1922.
Non ancora trentenne si era imposto come critico d’arte, notato da Benedetto Croce, dal quale ebbe posizioni sempre più distanti, così come accadde anche con il critico e storico dell’arte Bernard Berenson, che risiedeva nella villa di Settignano, oggi sede di Villa I Tatti. Il loro rapporto fu complesso e di sempre maggiore conflitto. Dopo aver conseguito la libera docenza, Longhi rimase a Roma, continuando nella pubblicazione di saggi ancora fondamentali, da I Fatti di Masolino e Masaccio al Piero della Francesca. Nel 1934 vinse la cattedra di Storia dell’Arte all’Università di Bologna e dal 1939 si stabilì a Villa il Tasso, nei dintorni di Firenze, dove risiedette con la moglie, Lucia Lopresti, sposata nel 1924, già sua allieva al Liceo Visconti di Roma, che prese il nome di Anna Banti. Gli anni bolognesi furono quelli della formazione dei suoi primi allievi diretti: Francesco Arcangeli, e i più giovani Carlo Volpe, Mina Gredivenne
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Il metodo L’opera d’arte, dal Vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina, è sempre un capolavoro squisitamente relativo L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte
gori, e Pier Paolo Pasolini. In questo periodo, strinse amicizia con Giorgio Morandi. Nel 1948 realizzò con Umberto Barbaro due film documentari, il primo dedicato a Carpaccio e il secondo, purtroppo perduto nella versione definitiva e con il sonoro, al Caravaggio.
Nel 1949, Longhi approdò alla cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna dell’Università di Firenze. L’anno successivo, nella villa Il Tasso, avviò Paragone Arte. Nell’editoriale del primo numero della rivisita scrive: «L’opera d’arte, dal Vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina, è sempre un capolavoro squisitamente relativo. L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte». Questa citazione racchiude il metodo longhiano e il suo insegnamento nelle aule dell’ateneo e a Villa Il Tasso.
L’anno successivo segna un’altra tappa fondamentale del percorso di Longhi: la mostra Caravaggio e i Caravaggeschi al Palazzo Reale di Milano, che sancisce le radici lombarde della pittura del Merisi. Il successo e l’importanza dell’esposizione portarono alla monografia Il Caravaggio (1952), poi ripubblicata nel 1968 come Caravaggio, testo imprescindibile per avvicinarsi allo studio del pittore. Firenze diventa in quegli anni fucina di talenti provenienti da tutta Italia e dall’estero. Tra i suoi allievi vanno ricordati Enrico Castelnuovo, Giovanni Testori, Andrea Emiliani, Giovanni Previtali, Fiorella Sricchia Santoro, ma anche Federico Zeri, Alvar González Palacios e Antonio Paolucci. Tanti vennero presto impegnati in un’altra impresa molto caldeggiata da Longhi, i Maestri del colore, e alcuni collaborarono alla redazione di Paragone. Dopo la morte di Longhi, per volontà dello studioso e grazie all’impegno di Anna Banti, la Villa sede della Fondazione a lui intitolata, dove sono conservati la biblioteca e la fototeca, legate per «vantaggio delle giovani generazioni». Da allora la Fondazione continua a formare giovani, offrendo borse di studio. Longhi vi aveva lasciato anche un’importante collezione di opere d’arte che, a volte, vengono concesse in prestito per mostre temporanee, com’è il caso della mostra Il Tempo di Caravaggio. Capolavori della Collezione di Roberto Longhi, appena inaugurata ai Musei Capitolini di Roma a cura di Maria Cristina Bandera, direttore scientifico della Fondazione, dove spicca il Ragazzo morso da un ramarro. Quest’ultima iniziativa evoca, nel titolo, la grande mostra del 1985, The Age of Caravaggio o Caravaggio e il Suo Tempo, al Metropolitan Museum of Art di New York e al Museo Nazionale di Capodimonte, e allora curata da Mina Gregori che succedette a Longhi, nella cattedra di Storia dell’Arte a Firenze. A cinquant’anni dalla sua scomparsa, Roberto Longhi e il suo metodo rappresentano ancora la cifra più alta dell’indagine storico-artistica. Un metodo cui prestò ammirazione incondizionata, e rara un altro grande «fiorentino d’adozione», Gianfranco Contini, che scrisse: «Senz’alcuna necessità di rivolte, togliendo e silentio
dall’idealismo genuino quel che gli serviva per la pensabilità dei suoi oggetti, Longhi, lontano dal sostare didatticamente nella contemplazione extrastorica delle opere, non si è mai presentato se non come storico e attribuzionista; ma giova pensare che egli non stimasse per codesta filologia di restare esiliato nei preliminari, nella protasi, o qui più propriamente si dirà nel nartece della critica vera: in quell’istituzione di apparenza filologica, e comunque ignuda o magari ingratamente abbigliata si fosse potuta offrire (di qui il doloroso dovere per noi d’ignorare la bella veste), era tutta la sua critica (la si giudicherà impura?), integro il giudizio. Fra gli ammiratori di Longhi, la categoria ingenua, sbalordito mercante o scolaro, lo celebra in prima istanza come mostro di memoria. Ma non è detto che il semplice non percepisca per speculum et in aenigmate qualcosa di essenziale: la memoria, per quanto eccezionalissima, di Longhi è la facoltà di serrare l’immagine fra le immagini prossime, in ogni direzione, secondo linee il più possibile complete; di descrivere la rete di relazioni che avvolge il punto. Questa facoltà eminente d’integrare la spazialità del fenomeno è, qualunque siano i poteri mistici (cioè irrelatamente intuitivi) del nostro, dote di scienziato: innanzi ai fatti, in quanto fatti, non esistono due metodi».
*L’autrice è direttrice dei Musei del Bargello