L’anniversario
Dieci anni senza Manuela Righini, leonessa viola
Si chiamava «Fuori gioco» la tua rubrica. E oggi la rimettiamo in pagina per ricordarti. Nei tuoi panni di giornalista. Giornalista a tutto campo, ma inguaribilmente innamorata dello sport. Del calcio. Della Fiorentina. Manuela Righini. Tu, la prima donna a fare cronaca quotidiana dal Franchi. Tifosa, certo, ma sempre lucida nei giudizi. Spesso severi, anche troppo. Ma trasparenti, come si addice a chi lavora con onestà intellettuale.
Quando alla fine del 2006 io lasciai via Solferino per andare a fondare il Corriere di Bologna e poi il Corriere Fiorentino rimanesti al tuo posto, alle Cronache del Corriere della Sera, di cui in pochi anni eri diventata il pilastro. Non solo per la capacità professionale, ma anche per quel senso di umanità tosta, che non ti faceva risparmiava critiche a nessuno, né sfuriate, ma che trasmetteva sicurezza. Anche protezione. Amicizia.
Eri una leader, insomma.
Qui accanto c’è la foto di te seduta sulle gradinate dello stadio al Campo di Marte. Sembri quello che eri: una leonessa. Fuori dalla gabbia. Libera. Orgogliosamente libera. Eri rimasta a Milano ma, da fiorentina,volevi dare a ogni costo una mano nella nuova impresa avviata sul lungarno delle Grazie. E decidemmo insieme di ritagliarti uno spazio settimanale nelle pagine sportive. Nacque così «Fuori gioco». Spesso fonte di polemiche con la Fiorentina. Una volta, come direttore, dovetti persino prendere ufficialmente le tue difese nello scontro con Pantaleo Corvino. Due caratteri non proprio malleabili.
Due esplosioni di energia. Ma dopo la tua scomparsa, i fratelli Della Valle mi chiamarono per annunciarmi che ti avrebbero dedicato la sala stampa. Era un gesto di generosità che riconosceva il tuo talento, il tuo rigore, e che ricuciva ogni strappo. Mi chiesero di parlare durante la cerimonia e io lo feci, tirato per l’emozione come una corda di violino.
Quel giorno c’era anche Martina, tua figlia, nelle stanze del Franchi. Riservata, quasi schiva. Ma lì stava capendo quanto di buono la sua mamma aveva seminato nel campo di noi giornalisti. Noi due ci eravamo conosciuti molti anni prima di ritrovarci al «Corriere». Conosciuti e combattuti nel Consiglio dell’Assostampa della Toscana e poi nell’infuocato congresso della Federazione nazionale ad Acireale. Militavamo nelle due trincee contrapposte. Ma si può anche scontrarsi ferocemente coltivando reciprocamente stima e simpatia. Era quello che più contava, in quell’aprile del 1986, quando c’era ancora qualche causa degna di essere combattuta.
Da quei giorni erano passati 24 anni quando tu nel giugno di dieci anni fa mi chiamasti all’Hospice delle Oblate a Careggi. In quella che avevi voluto come ultima tua casa su questa terra. Avevi rotto un lunghissimo silenzio. Noi, i tuoi colleghi più vicini, sapevamo. Ma rispettavamo la tua scelta. Con l’ansia di rivederti.
Io ti portai un mazzolino di fiori in una carta viola. Parlammo a lungo. Sopratutto di calcio e giornali (il «Corrierone» e il «Fiorentino»). Come se nulla fosse. E così ci lasciammo, senza dirci quando ci saremmo rivisti. Era un addio. Che poi vuol dire «a Dio». Non è finita qui.