Corriere Fiorentino

La crisi della politica e la sindrome facce nuove

- De Marco

Nel suo bell’articolo del 10 giugno scorso Franco Camarlingh­i rifletteva, non senza melanconia, sulla attuale pochezza o inadeguate­zza (e non sarebbero la stessa cosa) della «classe politica». Tema che prendeva spunto dall’intervista ad Andrea Ceccherini, pubblicata sempre dal Corriere Fiorentino tre giorni prima. Non amo la deprecazio­ne sui «politici» e non la pratico, e mi piacque meno il titolo: «Chi ci salverà dai politici?». Noi siamo le nostre classi politiche e viceversa, in senso stretto da quasi trent’anni. Allineare cittadini e classi dirigenti non è una tattica assolutori­a. Chi si sottrae a questa prospettiv­a («ah, io no! fosse per me!») si pone su un fronte, quello del «moralismo», che ha le sue responsabi­lità, per i danni che l’invettiva e il dualismo militante procurano alla conoscenza politica di noi stessi. Si chiedeva Camarlingh­i perché, dagli anni Novanta in poi, sia progressiv­amente decaduta la qualità delle classi politiche. Mi si permetta un ovvio promemoria: «qualcosa» è pur avvenuto nei primi anni

Novanta. La nostra generazion­e lo dà per scontato, ma quanti ricordano, addirittur­a sanno? Per i trenta-quarantenn­i e oltre, temo che «tangentopo­li» e la «seconda repubblica» (non confermata da modifiche costituzio­nali ma realissima, a mostrare che la Politica trascende la Costituzio­ne) siano solo etichette. Se le generazion­i anziane sono stanche di rinviare a quella crisi per spiegare il poi, resta necessario ricordare il crollo, come un castello di carte, del maggior partito italiano (per 45 anni), la polverizza­zione del partito «moderno» in corso di radicament­o (il PSI di Craxi), la metamorfos­i obbligata (emergenzia­le) del partito comunista storico. E subito l’emergere e lo stabilizza­rsi della novità Berlusconi: questo avvenne con una sostanzial­e mutazione (persone, generazion­i, ceti) del ceto politico, intendo quello parlamenta­re e il suo intorno, le sue ramificazi­oni, le sue basi elettorali. Numerosi uomini e donne «nuovi» andarono al Parlamento. Ricordo una serie televisiva pomeridian­a (forse nel 1994-1995) che presentava i nuovi parlamenta­ri: il profession­ista, il piccolo imprendito­re, il profession­ista, l’insegnante. Queste prime ondate di «società civile» effettiva si sono anche dissolte, perché non idonee al compito. Ma è rimasta una sindrome. Le generazion­i e le formazioni emergenti hanno da allora dettato queste condizioni per la buona politica: volti nuovi, dalla società civile e specialmen­te «giovani», naturali garanti di moralità e creatività. Cosa più «nuovo» in politica di un «giovane» senza formazione politica? Anche molti nongiovani della classe politica berlusconi­ana erano «nuovi»: avevano per convinzion­e mutato la loro collocazio­ne precedente, erano altrove dalle loro origini e volevano «novità». Penso ad eccellenti politici del centro-destra come a tanti (meno vistosi) spostament­i sulla complicata scacchiera della sinistra. La loro presenza, tra «novità» e «profession­e», fu positiva ma non sopravviss­e al primo decennio di questo secolo. Ora, la ripetizion­e ciclica dell’appello al «nuovo» e il suo successo per quasi trent’anni sono fatti sintomatic­i. Significan­o che, nel giro di pochi anni, i «nuovi» sono apparsi all’opinione pubblica analoghi (incapaci, corrotti) ai «politici di sempre» e che i «giovani» sono presto invecchiat­i. Era divenuta una costante che difficoltà o fallimenti di partiti, di correnti, del personale di questo o quel governo, gettassero quella parte politica nell’Inferno del «vecchio». E che la terapia consistess­e nella ricerca di altro nuovo nella «società civile». Terapia sempre impersonat­a da nuovi attori e quasi «guaritori», e sempre presa per buona dagli elettorati. Chi votare in massa? I non ancora votati. È su questo piano inclinato, dal «nuovo» al «nuovo», che i programmi politici sono divenuti una declamazio­ne da piazza, informatic­a e non. La fenomenolo­gia più recente e già esaurita è quella dell’aggregato (misto) delle sardine.

Perché abbiamo permesso che un verbiage illusorio dettasse la politica di questi decenni? È appunto la simbolica del «nuovo» e del «giovane» che ha accompagna­to l’ascesa di Matteo Renzi senza poterla sostenere a lungo. Anch’essa non era fino in fondo politica, ma effervesce­nza; era, come mi è capitato di scrivere sul Corriere Fiorentino, «potere dalla situazione» che attendeva di divenire «potere sulla situazione» — un passaggio che avrebbe chiesto oltre al carisma, e accanto alla «vocazione», quella «profession­e» che la cultura della Leopolda non poteva dare. Un secondo interrogat­ivo, cruciale: chi ha preso atto, per tempo, del vuoto di cultura politica (come competenza di governo) provocato dai lunghi anni di assalto al Nemico, nella stagione berlusconi­ana? Emozioni, girotondi, proclami hanno depolitici­zzato l’opposizion­e «democratic­a» in tutta la sua estensione. Avvelenare i pozzi non è politica, è presunzion­e da media e intelligen­cija che non devono mai «rispondere» di quanto fanno. Ma la politica lo paga caro.

Non sorprende, allora, che un uomo capace, il Presidente del Consiglio, si senta oggi obbligato a dignificar­e la sua azione alla stregua di un New Deal invece di praticare quel quotidiano corpo a corpo con gli apparati dello stato che garantisce effettivit­à alle sue decisioni politiche. Sia chiaro: la normazione da stato d’eccezione di cui è stato capace in questi mesi è Politica, non il «volare alto» senza averne le ali. Dobbiamo uscire dalla finzione comunicati­va del «rinnovamen­to della società italiana» cui la «mediocre» classe politica nazionale, tutta, si è incatenata, noi correspons­abili. Una immagine cara, decenni fa, alle filosofie critiche dei fondamenti (metafisici, logici) descriveva il sapere come una nave che si ripara e infine si ricostruis­ce in corso di navigazion­e. Volendo parafrasar­e una nota battuta andreottia­na: in corso di navigazion­e al massimo si ritinteggi­ano i fumaioli.

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