LA RAMAZZA DI DON ABBONDIO
Prodotti di qualità al posto dei grembiuli col David sotto le logge del Porcellino, ma anche alberghi di lusso chiusi e ritorno della mala movida. Il quadro del turismo a Firenze che emerge in questi giorni è decisamente enigmatico. Chi sperava, alla don Abbondio, che la pandemia come una grande «scopa» ramazzasse gli aspetti deteriori del turismo usa e getta rischia di rimanere deluso, anche se il ritorno di prodotti toscani di eccellenza in prossimità del cinghialetto del Tacca autorizza un barlume di speranza. È lecito infatti auspicare che una congiuntura critica come l’attuale costituisca una lezione utile a tutti. Sarebbe però opportuna un’autocritica sulla radice di molti mali: aver creduto di poter trasformare il centro storico in una Venezia sulla terraferma. Il risultato è stato non solo l’esodo dei residenti e la delocalizzazione dei servizi, ma il venir meno della capacità attrattiva sugli abitanti delle periferie e dell’hinterland. Prendere il sabato pomeriggio l’aperitivo al Bottegone o i salatini da Bruzzichelli, comprare abiti indistruttibili da Old England o da Fusodoro Marzotto, vedere una prima visione all’Edison, era un tempo il premio di una settimana di lavoro per abitanti delle periferie o dell’hinterland. Oggi per vedere un film si va a Campi e lo shopping si fa negli outlet. Lo stesso può dirsi per la ristorazione. Fino a pochi anni fa il centro era un’attrattiva anche gastronomica. Oggi il fiorentino ha la sensazione che i ristoranti del centro siano macchine spennaturisti e li evita. Il contrario di quanto avviene in molte città europee, da Vienna a Parigi, in cui a Grinzing o nel Quartiere Latino è facile incontrare gli «indigeni», grazie anche alla tradizione del menù a prezzo fisso, che in Italia non ha mai attecchito: chi lo sceglie è guardato con degnazione dal cameriere. Non è un male solo fiorentino, ma una vecchia piaga denunciata nel lontano 1946 da un grande giornalista come Egisto Corradi in un articolo ripubblicato poche settimane fa su «Sette». Ma lo scotto di certe scelte lo hanno pagato molti ristoranti che, rimasti senza turisti, non hanno potuto contare sulla clientela locale. Può darsi che il Covid perda presto la sua aggressività e che la vita torni come prima, attributi del David inclusi, magari, come ha detto Houellebecq, un po’ più scomoda. Ma se anche fosse così, la lezione della pandemia potrebbe insegnare qualcosa: diversificare l’offerta, rendere il centro più accessibile, e soprattutto smettere di pensare che Firenze possa divenire un’altra Venezia, con le carrozzelle al posto delle gondole.