Corriere Fiorentino

«Ho lasciato i nomi dei miei contatti Ma erano troppi...»

- G.G.

La fame d’aria, la paura di essere portata via dall’ambulanza, che tutto finisca per il peggio, e di non avere neppure il tempo di salutare il marito e il figlio. Una ginecologa fiorentina di 55 anni racconta la sua odissea lunga 63 giorni: tanto è durata la positività al coronaviru­s, anche a causa di tamponi che non arrivavano mai. Tutto è iniziato con i sintomi tipici del Covid: stanchezza, cefalea, tosse, febbre sempre più alta. «Ero molto preoccupat­a perché negli ultimi giorni avevo visitato diverse gravidanze», racconta la dottoressa, che sabato 14 marzo contatta il proprio medico curante per chiedere il tampone. Servono 6 giorni per farlo e ottenere risposta: è positiva. «Nel frattempo avevo fatto preparare i nomi e i telefoni dei contatti, segnalando quali fossero le gravidanze, i sanitari e le segretarie dello studio; e avevo preallerta­to i miei colleghi di tre diverse strutture ospedalier­e». Ma dal servizio di Igiene le viene detto che i contatti indicati erano «troppi». «Fortunatam­ente nessuna delle mie pazienti si è ammalata, ma vengo a sapere che avevo visitato due pazienti asintomati­che, probabilme­nte a causa della mia infezione».

Risolte le preoccupaz­ioni per la salute degli altri, la ginecologa deve pensare a se stessa. La febbre sopra i 39 gradi per nove giorni, la saturazion­e d’ossigeno che scende in modo preoccupan­te, fino a che non comincia ad avere difficoltà a parlare e il medico curante la fa trasferire in ospedale: diagnosi, ha la polmonite. In 6 giorni, con le cure, la febbre se ne va, le sue condizioni migliorano rapidament­e. Così, in corsia, le altre pazienti la trattano come un medico, non come una paziente: «Nella stanza c’era tensione, silenzio, paura e ho cercato nel mio piccolo di dare qualche parola di conforto alle amiche per caso, mentre nelle stanze accanto le pazienti morivano — racconta — l’ospedale non si riconoscev­a, si leggeva nel volto del personale indaffarat­issimo la tensione e la paura». Così, ogni volta che c’era un problema, un ago che saltava, una macchina che non funzionava, servivano ore prima che ci fossero provvedime­nti: «Il personale cercava di essere cortese, profession­ale e umano ma ancora non era ben organizzat­o». Le dimissioni sono arrivate il 28 marzo, perché «serviva il letto per persone più gravi». Così a casa la tranquilli­tà si è chiamata bombola d’ossigeno. «Sono stata 14 giorni rinchiusa in camera, con risvegli continui e la sensazione di fame di aria. Avevo un pensiero ricorrente che non ero riuscita a salutare mio marito e mio figlio quando sono andata via con l’ambulanza; e se non ce l’avessi fatta?».

Poi la critica alle lentezze dell’assistenza territoria­le: «A casa mi sono sentita abbandonat­a, il primo tampone di guarigione me lo hanno fatto dopo 14 giorni (dalle dimissioni ospedalier­e, ndr), negativo. Il mio secondo tampone di guarigione è stato fatto il 29 aprile, 18 giorni dopo il primo». Tempi lunghissim­i. Ma per la ginecologa l’incubo Covid, con tutti i suoi paradossi, non è finito con la sua odissea personale: anche il figlio si è ammalato. Lei lo curava a casa, mentre lui la implorava di evitare il ricovero. Le cose sono andate presto bene. Ma ancora una volta con lo stesso problema: «Il tampone di mio figlio, richiesto in urgenza in quanto convivente di Covid, è stato effettuato solo dopo 18 giorni, quando lui stava oramai bene ed è risultato negativo».

❞ Sono stata dimessa il 28 marzo per lasciare il posto a chi era più grave A casa mi sono sentita abbandonat­a e avevo ancora fame d’aria

❞ Il secondo tampone è stato fatto 18 giorni dopo il primo. Si era ammalato anche mio figlio e a lui lo hanno fatto quando era già negativo

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