«Dieci giorni sfocati e nessun aiuto per spesa e farmaci»
Due settimane dopo il primo caso toscano, c’era ancora chi non aveva capito la portata dell’emergenza. Lo racconta una dottoressa di 38 anni, che il 7 marzo viene chiamata per una consulenza nel pronto soccorso dell’ospedale dove lavora per visitare un paziente, col tampone negativo ma una chiara polmonite interstiziale: «Allerto la direzione sanitaria, nessuno mi prende sul serio. “La clinica viene dopo — mi dicono — il tampone è negativo, stai tranquilla”».
Lei tranquilla non sta, e quando si trova di fronte altri casi simili, decide di isolarsi dalla famiglia e di «vivere in una cameretta di 12 metri quadrati, indossare la mascherina in casa, mangiare da sola. Per un mese — racconta — poi, sabato 4 aprile torno a casa stremata dall’ennesimo turno infinito, un freddo atroce, ricoprirmi di coperte non basta».
Due giorni dopo la dottoressa ha la febbre a 39 gradi, respira male. Si reca in ospedale, seguendo le regole di precauzione, si fa visitare come una potenziale contagiata e il tampone conferma la positività. Ma i suoi parametri sono buoni, la rimandano a casa, con le ricette per le medicine. Ma la sua preoccupazione verso il marito e le figlie, la spingono a dirigersi subito nella sua cameretta di 12 metri quadrati, senza pensare ad altro. «Ma a quel punto mi rendo conto che siamo tutti in quarantena e che non ho idrossiclorochina. Contatto la mia farmacista di fiducia che riesce a reperirmi il farmaco, a quel punto a pagamento perché non poteva usare la ricetta rossa che avevo io. Un vicino di casa — spiega — va a prendermi tutto e mi porta a casa il necessario. Iniziano 10 giorni in cui i ricordi iniziali sono sfuocati, febbre alta, dolori fortissimi al rachide e alle gambe tanto da dover ricorrere ad
❞ Mi sono autoreclusa in una stanzina per proteggere la mia famiglia L’ultimo tampone per poter uscire con quindici giorni di ritardo
auto-iniezioni intramuscolo». Il decimo giorno finalmente i primi miglioramenti: «Inizio ad essere più presente con la mia famiglia, li vedo dalla finestra che dà sul cortile e seguo da dietro la porta mia figlia grande che esegue le video lezioni. Leggo storie alle più piccole… E mi sento tremendamente in colpa per il dolore che sto causando».
E il servizio di Igiene? «In teoria dal terzo giorno sarebbero venuti a prendere la spazzatura ma mai visto nessuno. Nessun aiuto per la spesa o i farmaci». La giovane dottoressa una volta superati i sintomi chiede al proprio medico di fare il tampone. Lo ottiene in due giorni e il 25 aprile, risulta negativa.
«Le cose sembrano girare nel verso giusto, ma il tutto subisce un fermo inspiegabile: nessun secondo tampone di controllo». Un medico conoscenze nell’ambiente ne ha, eppure le risposte parlano di problemi burocratici, personale carente.
La dottoressa scrive anche una lettera al governatore Rossi. Dalla Regione le rispondono il giorno successivo. L’arcano viene chiarito: il numero di telefono presente nel file di chi era incaricato a fare il tampone non era esatto. Il secondo tampone arriva il 7 maggio, la risposta il 12: è guarita. «Fine di incubo. Ma uscita da quella stanza, non è come me lo aspetto: abbraccio con enorme forza le mie figlie ma mi rendo conto che non riesco ad essere avvicinata da mio marito, dai miei genitori. Per una persona espansiva come me è un trauma. Mi sono davvero resa conto che non era finita. Che il Covid non mi aveva del tutto lasciato senza danni, che ha messo in discussione anche le manifestazioni di affetto, che prima sembravano scontate».
❞ L’incubo era finito ma non come pensavo: ho abbracciato le mie figlie, ma mi sono resa conto che i miei genitori e mio marito non si avvicinavano