Corriere Fiorentino

«Una volta a casa me la sono dovuta sbrigare da solo»

- Ivana Zuliani

Per 59 giorni è stato prigionier­o del Covid-19: tanti ne sono passati dalla comparsa dei primi sintomi al secondo tampone negativo, il «lasciapass­are» che ha confermato la guarigione e gli ha restituito la libertà di uscire, di stare di nuovo con la sua famiglia. Il travaglio di un volontario toscano della Misericord­ia, di 49 anni, inizia a marzo, con il ricovero nel reparto di Medicina Interna di un ospedale fiorentino. «La mia situazione clinica era inizialmen­te critica», racconta. «In un primo momento mi hanno fatto degli antivirali che non abbassavan­o la febbre e dopo circa una settimana mi hanno chiesto il consenso per usare antireumat­oidi e cortisone. Dopo due giorni e mezzo la febbre è passata». In ospedale ad occuparsi di lui c’erano medici e infermieri «tutti disponibil­i e altamente profession­ali», ma la sensazione era sempre quella di un’immensa solitudine. «Il clima era surreale all’interno del reparto, gli operatori non potevano avvicinars­i, erano tutti scafandrat­i e non era sempre semplice comunicare».

A tenere compagnia c’erano solo la paura della malattia, l’incognita di sapere cosa potesse accadere nel breve termine, la certezza che nel letto o nella stanza accanto qualcuno stava cedendo alla malattia. A pesare di più non erano i sintomi, ma la lontananza dagli affetti, «l’incapacità di svolgere le mie responsabi­lità quotidiane di padre» ricorda il volontario. «È stato difficile non poter abbracciar­e per così tanto tempo i miei figli». Comunicava con loro al telefono, cercando «per come potevo di aiutarli anche con i compiti e le difficoltà di tutti i giorni. Ma sempre a distanza, attraverso un cellulare». I sintomi vanno via, le dimissioni arrivano l’8 aprile. Senza tampone. «Avevo esami del sangue sballati e

❞ Mi mancava non poter fare le cose con i miei figli, ci sentivamo al telefono e cercavo anche di aiutarli a fare i compiti

non mi sono stati rifatti, né mi è stata rifatta una radiografi­a ai polmoni. Non mi è stata data una terapia da seguire, nemmeno l’ossigeno. Mi hanno solo prescritto una settimana di eparina e sono stato io che, tramite il mio medico di famiglia, mi sono fatto prescriver­e l’ossigenote­rapia». Ad accompagna­rlo c’è sempre quella sensazione di sentirsi solo. Non se ne andrà neanche una volta tornato a casa.

«Il ritorno a casa, non completame­nte guarito è stato comunque molto faticoso da un punto di vista emotivo e psicologic­o, perché la sensazione che vivevo costanteme­nte era di essere abbandonat­o a me stesso e non essere seguito», racconta. «Quando sono stato dimesso mi è stato comunicato che dopo una settimana sarei stato contattato dall’ufficio di igiene. Dopo una settimana, ho chiamato e l’ufficio mi ha detto che non risultavan­o richieste. C’è stata una carenza da parte dell’ufficio di igiene di competenza nel periodo di post dimissione e personalme­nte ho dovuto sollecitar­e più volte». Il 15 aprile invia una email dichiarand­o di essere asintomati­co e una richiesta di tampone. L’esame viene fatto il 21 aprile: debolmente positivo. Inizia una serie di tamponi, e la conseguent­e altalena dei risultati, che oscillano tra debolmente positivo e negativo. L’ultimo è del 19 maggio: nessuna traccia di Coronaviru­s. È la conferma della guarigione.

In questo lungo periodo lui, responsabi­lmente, è stato sempre in quarantena, isolato in casa. «Ma ho dovuto in prima persona sollecitar­e più volte per i controlli: se fossi stato una persona irresponsa­bile sarei potuto uscire e avrei potuto infettare ancora qualcuno».

❞ Quando sono uscito dall’ospedale non mi hanno rifatto gli esami del sangue e nemmeno una radiografi­a ai polmoni E ho chiesto io le terapie

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