La notte jazz
Danilo Rea: viaggio nella musica italiana a Villa Bardini
Impuro, ruffiano, eretico. Quante volte Danilo Rea si è sentito appellare così nei suoi anni di gioventù e formazione. Prima di diventare un pianista affermato. Prima di essere lui a imporre uno stile «imperfetto» ma di successo. Se lo dice da solo. Anzi lo scrive. Il jazzista imperfetto è il titolo del libro che ha pubblicato con la Rai nel 2018, in cui racconta il suo modo di intendere l’improvvisazione. È un’autodefinizione di cui va orgoglioso. E anche il titolo di un programma radiofonico che alle 11.20 di domani lo vedrà in diretta dagli studi romani di Rai 1. Entra in studio, suona, racconta. Poi si fionderà sul primo Frecciarossa, direzione Firenze. Perché la sera stessa sarà sul palco di Villa Bardini, ospite di punta della terza serata del Firenze Jazz Festival (già sold out). Alle 20 per presentare il libro, intervistato da Alessandra Cafiero. E alle 21 per il suo concerto di piano solo dove non c’è spazio per le regole, c’è dentro di tutto: gli standard, le canzoni di Gino Paoli e quelle di De André, il suo amore per Mina, la sua devozione per il maestro Morricone. Ma non farà «canzoni». Si siede al pianoforte e inizia un percorso di flusso libero di note dove tutti questi mondi stanno insieme. E a quelli che insieme non ci dovrebbero stare, ci pensa lui a cucirgli addosso un vestito adatto.
Danilo Rea, iniziamo da un pensiero per un festival glorioso come il Firenze Jazz Festival, l’ex Fringe. Perché si fa anche in questo 2020. E non era scontato.
«È un super festival. E sono onorato di parteciparvi. Oggi più di ieri certe realtà devono cercare di resistere ed esistere. Anche se ridotti, incompleti, l’importante è farli. In un periodo sofferto come questo, è necessario che il jazz provi a proporre qualcosa. E noi musicisti dobbiamo fare la nostra parte, anche i doppi set per venire incontro ai problemi di contingentamento del pubblico. Perché si parla tanto della necessità di aiutare i musicisti ma anche noi musicisti dobbiamo aiutare i festival».
Un approccio kennedyano: non chiederti cosa un festival può fare per il musicista ma cosa il musicista può fare per il festival.
«Il lockdown è stato duro, soprattutto dal punto di vista atletico: dopo 100 giorni di silenzio, fermi, come gli atleti subiamo la perdita di allenamento. Io ho iniziato a sentire dolori ai muscoli e ai tendini. Fermarsi di colpo, a freddo, soprattutto per chi fa improvvisazione, è stato fisicamente un problema. Non bisognerebbe fermarsi mai».
Cosa chiede a un festival? Come deve essere per lei?
«È il luogo, il contesto, a darti l’ispirazione. E mi dicono che Villa Bardini sia un posto eccezionale. Quando la luce scenderà, si accenderà la città e la musica si poserà come una magia sui tetti di Firenze...».
Immaginiamo quel momento.
«Lì inizia il viaggio. Mi siedo al piano e decido di partire con lunghe improvvisazioni su temi che mi piacciono. Che partono da lontano e finiscono sulla musica di circa 20 anni fa».
Niente di più recente?
«Negli ultimi 20 anni la musica ha espresso il peggio di sé. Oggi c’è troppo rap e poca melodia. Mi sento piuttosto vecchio in questo, non riesco ad aggiornarmi perché quello che si sente oggi non mi coinvolge. Mi piace legare un brano all’altro quasi senza fermarmi come un lungo viaggio nella memoria, una colonna sonora della nostra vita».
A proposito di colonne sonore, adattare Morricone al piano solo è una bella sfida...
«Lo è. Ma mi è sempre piaciuto così tanto, non posso non suonarlo. Anche se lui non amava affatto l’improvvisazione, da fermo sostenitore della perfezione della scrittura qual era. Per lui la musica è il risultato di un pensiero preciso. Ma io la suono da fan e sento che questa cosa è importante sopratutto ora, a pochi mesi dalla sua scomparsa».
In altri tempi un repertorio come quello che proporrà a Villa Bardini sarebbe stato ritenuto, appunto, «eretico».
«Ohhh se solo sapeste quante volte tanti amici musicisti mi hanno definito in questi modi. Ma non mi sono pentito della strada che ho scelto. Perché se non mi divertissi e non mi emozionassi io, non potrei emozionare il pubblico. E poi: il linguaggio del jazz si è standardizzato tanto negli anni. E a parte i grandi maestri, tra i nuovi jazzisti si è elevato di molto il livello tecnico ma è sceso il tasso di empatia. Sono diventati più freddi. Anche a causa del fatto che le scuole di musica si sono messe in testa di “codificare” l’improvvisazione, creando così una serie di musicisti che si somigliano tutti».
❞ Lui e Morricone Mi è sempre piaciuto, non amava l’improvvisazione ma io lo suono da fan