L’intellettuale diventato sindaco, così Bonsanti trasformò il quartiere
Personaggi Dalla creazione dell’Archivio Contemporaneo al Vieusseux fino ai caffè dal Ricchi Così il raffinato intellettuale diventato sindaco ha reso il quartiere un piccolo «teatro del mondo»
In questo secondo centenario della fondazione del Gabinetto Vieusseux due mostre e due cataloghi hanno documentato l’impegno civile e intellettuale di Alessandro Bonsanti: nel salvataggio del patrimonio librario del Vieusseux dall’alluvione del 1966 e nella fondazione dell’Archivio Contemporaneo. Ma c’è una microstoria, meno nota, che vale la pena d’esser conosciuta.
Dalle immagini di quei giorni che seguirono il 4 novembre è ormai tramandata la dignitosa figura con le calosce nel cortile di Strozzi, intorno ai suoi libri distesi a pavimento. Dalle convulse riunioni in prefettura e in Palazzo Vecchio emersero alcune indicazioni, buona parte delle quali dovute alla conoscenza dei luoghi da parte di Guido Morozzi e Ugo Procacci, allora soprintendenti ai monumenti e alle gallerie. Casamassima (direttore della Biblioteca Nazionale, col suo braccio destro Alfierino Manetti) avrebbe utilizzato il Forte di Belvedere come deposito per i quotidiani dell’emeroteca, Umberto Baldini la Limonaia di Boboli per ricoverare il Crocifisso di Cimabue e altri nobili compagni di viaggio, Bonsanti avrebbe avuto a disposizione il piano terra del Palazzo degli Studi della Certosa del Galluzzo.
Alla Certosa, Bonsanti delegò Mauro Fabbri, che per lui era la fedeltà in sembianze umane. Poco più tardi, con la lucida intuizione di un archivio che potesse raccogliere i fondi degli scrittori e artisti contemporanei (l’Archivio Contemporaneo), si rese disponibile il palazzo di via Maggio (ov’era stato, per ultimo, un commissariato di polizia). Io ne seguii i lavori di restauro e di adattamento e questo permise una crescente confidenza, maturata in profonda amicizia.
Su suo invito cominciai a scrivere su Antologia Vieusseux,
racconti di viaggio in Polonia e altrove, inediti del Giusti trovati in casa Ruschi a Calci e altro ancora.
La consuetudine era uno dei tratti distintivi che Bonsanti sapeva creare intorno a sé: ne aveva fatto un frammento di civiltà che si celebrava fra piazza Santo Spirito, Borgo Tegolaio e lo Sdrucciolo dei Pitti, che io traversavo scendendo da Palazzo Pitti. In Alessandro Bonsanti c’era la consuetudine con la città, quella con il lavoro, quella del rapporto umano con le persone, quella del defilarsi dai
momenti ufficiali e di una laicità umanistica, perentoriamente contraria a tutto ciò che potesse porre i personaggi pubblici in condizione di privilegio nei confronti della collettività. In quest’Oltrarno c’era la consuetudine del caffè nel bar di Santo Spirito. Fu in occasione di una di codeste visite che fu risolto uno dei problemi linguistici che era sopraggiunto a seguito di una «ordinanza comunale» che condannò le pluricentenarie zuccheriere (con cucchiaino) che facevano bella mostra di sé sui banconi dei bar. «Quanto zucchero?» Si chiedeva, alludendo al cucchiaino. «Uno». Oppure: «Uno e mezzo, grazie». Quando apparvero le boccette a becco, a getto continuo, nacque il problema del dosaggio e della definizione di quella operazione di rotazione della mano per consentire il migrare dello zucchero nella tazzina. Ci interrogammo a lungo, lui proustianamente, secondo il suo stile narrativo, io pragmaticamente. Ne venne fuori il termine di gittata. «Quante gittate? Mezza, grazie». Oppure: «Una, grazie»
Questa parola che sta soppiantando il cucchiaino in ragione di un’ordinanza pubblica, è nata con Bonsanti, a Firenze, nell’autunno dell’81, nel caffè del Ricchi in piazza Santo Spirito.
Appena avviato l’Archivio Contemporaneo, con i primi preziosi fondi di Cecchi, Vallecchi, Gadda, Debenedetti, Rosai e altri, Bonsanti recuperò l’intero palazzo; così maturò l’idea di utilizzare il soffittone, restaurandolo e attrezzandolo con cura e ne nacque la «Sala della Capriata», in ragione di una splendida enorme capriata lignea. Quella sala fu poi inaugurata da Giovanni Spadolini con un solenne discorso in cui coniugò il tenace spirito di Giovan Pietro Vieusseux (a Firenze nel 1819) con quello, altrettanto tenace e moltiplicatore di Alessandro Bonsanti.
All’attivazione dell’Archivio volle associare un consiglio scientifico al quale non mancò di chiamare Lanfranco Caretti e Vanni Scheiwiller; così che, in quegli anni e fino alla sua scomparsa (febbraio 1984) quella fu la cittadella della cultura che aveva sostituito il ruolo che era stato delle «Giubbe Rosse». Fu il tempo in cui uscì Il Gelo di Bilenchi, che Bonsanti non mancò di commentare. In quel frammento di teatro del mondo, fra Pitti e Santo Spirito, Bonsanti testimoniava e narrava del possibile ruolo equilibrante di un sindaco di un piccolo partito in una città naturalmente litigiosa come Firenze: ruolo a cui l’aveva costretto Spadolini, invocandone l’ineluttabilità etica. Ma anche in quel tempo e con i suoi impegni di cancelliere umanista riusciva a regalarsi un intervallo per esser fedele all’appuntamento del bar Ricchi, dove Nello ed Enzo, alla cassa e al banco, conoscevano le consuetudini del professore; sapevano in quale angolo meno affollato andavano servite le tazze e cos’era a lui gradito.
❞ Quando un’ordinanza del Comune sostituì le zuccheriere con le boccette a becco fu per lui che la parola cucchiaino fu soppiantata da gittata
Uno dei suoi tratti distintivi era la consuetudine: con la città, con il lavoro, coi rapporti umani e con il defilarsi dai momenti ufficiali