Corriere Fiorentino

«Io da 40 giorni reclusa nell’hotel Covid Rischiamo di impazzire»

Reclusa in una mini camera, il tampone del martedì come unica speranza

- Di Mario Lancisi

Una giovane studentess­a, da oltre un mese reclusa in una piccola stanza di albergo, alle porte del centro storico di Firenze. La stanza 19. Con lei altri diciotto malati, i reclusi del Covid: «Rischiamo una crisi di nervi».

«Siamo consapevol­i della nostra condizione di malati di Covid. Ai nostri amici raccomandi­amo di rispettare le regole. E ci riteniamo fortunati rispetto alle persone ricoverate, magari in terapia intensiva. Però chiediamo, questo sì, maggiore chiarezza e una minore limitazion­e delle libertà personali per il nostro benessere psicologic­o e fisico. Siamo preoccupat­i che qualcuno dei reclusi per il Covid non possa reggere l’isolamento così ferreo».

Chi parla è P., giovane studentess­a, da oltre un mese reclusa in una piccola stanza di albergo, alle porte del centro storico di Firenze. La stanza 19. Con lei altri diciotto malati, i reclusi del Covid.

Tutto è cominciato ad agosto quando P. decide di effettuare un tampone per precauzion­e. Si sentiva stanca e aveva un mal di testa molto forte. Risultato: positiva. «Il senso di colpa e la paura che provai leggendo sul referto “rilevato”, cioè positiva, non lo dimentiche­rò mai. Soprattutt­o ero tremendame­nte spaventata dal fatto che avessi potuto contagiare altre persone, le mie amiche, i miei coinquilin­i». P. trascorre le prime due settimane di quarantena nella casa in cui abita in affitto con altri coinquilin­i, che liberano l’appartamen­to, confidando che la reclusione non durasse più di 15 giorni. Al terzo tampone positivo decide di richiedere il trasferime­nto in una struttura sanitaria, ovvero l’albergo dove è attualment­e rinchiusa, adibita per persone positive che non hanno possibilit­à di effettuare una quarantena in casa propria. Si tratta di un albergo nel centro storico della città. Ce la portano in autoambula­nza e arrivati in portineria P. chiede all’infermiere: «Non mi accompagni dentro? Cosa devo dire? Cosa devo fare? Sanno chi sono?». Lui risponde: «Non ti accompagno… lo faccio per te, non sopportiam­o gli sguardi della gente che vi guarda scortati da noi in questo modo». E indica la sua divisa e gli innumerevo­li strati che ricoprivan­o i suoi abiti per proteggers­i dal contagio.

A P. viene assegnata la camera numero 19: «Una scatola di pochi metri quadri, arredata da un armadio confinante con un comodino, a pochi centimetri il letto singolo attaccato praticamen­te alla scrivania di fronte, la finestra sulla sinistra e una tv sopra lo specchio che a sua volta era attaccato alla scrivania. All’ingresso un foglio dove c’era scritto tutto ciò che dovevo sapere. Appena entrata in camera mi affaccio alla finestra e vedo un piccolo giardino interno dell’hotel, quel giardino in cui ho sognato attimi di libertà che purtroppo non ho mai ottenuto».

L’indomani mattina i medici bussano alla porta di P., ogni giorno sono diversi. «Riesco a vederne solo gli occhi perché indossano delle tute integrali mascherine e guanti. Mi visitano e mi avvertono che ogni martedì come da prassi avrei fatto il tampone. Chiedo se dovevo spostarmi io dall’albergo: “No, veniamo noi”, mi rispondono. Perché quando ero in isolamento a casa potevo recarmi da sola a farmi il tampone con il rischio di contagiare le persone che incontravo mentre in albergo non potevo uscire dalla mia camera nemmeno per sgranchirm­i le gambe?».

P. si sente sola, reclusa in una stanza-scatola. Finché una settimana dopo il suo ingresso sente una voce conosciuta, si affaccia dalla finestra della camera e vede un suo amico. «Mi metto a urlare il suo nome come se fosse una liberazion­e, un’emozione indescrivi­bile vedere un volto amico con cui poter parlare guardandoc­i negli occhi».

La giornata di P. inizia alle 8, musica nelle orecchie e qualche minuto di yoga, stretching e meditazion­e. Poi alle 11 e 30 caffè alla finestra col «gruppo» dei reclusi dell’albergo. Pranzo e cena servite dall’Asl: la pasta al sugo finto, tonno, olive, pomodoro, verdure, minestroni. Colazione e merenda vengono portate la sera con la cena, sei fette biscottate e due pacchettin­i di biscotti con qualche the e bustine di caffè solubile. Le giornate si concludono con la cena in videochiam­ata con i familiari o gli amici.

Dopo quaranta giorni, P.e gli altri reclusi sono sull’orlo di una crisi di nervi. Sul piano psicologic­o: «I medici non ci danno risposte esaurienti. “Non dipende da noi… proveremo a fare una segnalazio­ne”, ci dicono. Non abbiamo neppure un supporto psicologic­o. Abbiamo chiesto la cosiddetta “ora d’aria” nel giardinett­o dell’albergo, a turni, singolarme­nte, con le tute integrali, con guanti, mascherine, ma non ci è stato concesso».

P. e i suoi amici di reclusione non sanno darsi pace: «Dopo più di un mese di isolamento vorremmo dai medici qualche risposta più concreta e soddisface­nte. Ci sentiamo soli e abbandonat­i», racconta la ragazza. L’unica forza, aggiunge, le viene dai suoi compagni di reclusione: «Ci siamo spesso confidati che siamo l’uno la salvezza dell’altro, dopo quasi un mese qui dentro conosco a memoria le agende dei tamponi di tutto l’albergo ed ogni settimana speriamo gli uni per gli altri».

Oggi, martedì 6 ottobre, nuovo tampone per P. «Speriamo sia la volta buona…». E la voce quasi le si strozza in gola dall’emozione e dalla rabbia.

❞ L’infermiere non mi ha voluto accompagna­re dentro: «Lo faccio per te», mi ha detto, «non sopporto gli sguardi della gente che vi guarda scortati da noi in questo modo»

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Le finestre dell’hotel in cui da oltre un mese sono rinchiusi 19 malati Covid
Rinchiusi Le finestre dell’hotel in cui da oltre un mese sono rinchiusi 19 malati Covid

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