Dal nostro inviato all’Inferno
Il libro Nel suo «A riveder le stelle» Aldo Cazzullo si cimenta con Dante «il poeta che inventò l’Italia» Martedì lo presenta al Salone de’ Cinquecento con Monica Guerritore che ne leggerà alcuni passi
❞ Ci ha regalato la nostra lingua ed è stato il primo a parlare di Bel Paese che per lui rappresentava un’idea nata dalla cultura, dalla poesia dall’arte
Quando i miei figli erano piccoli, ci divertivamo a nominare i Malebranche, che sono i suoi gruppi di diavoli: Malacoda, Barbariccia, Graffiacane Alichino ....
La cosa più impressionante è che la sa a memoria. E la snocciola a diritto, senza neppure un inciampo. Interi passi recitati senza una minima esitazione, come la Divina Commedia di Dante avesse la consistenza di una pagina di poesia e non fosse composta da cento canti. Da qui a dire che martedì prossimo — giorno della presentazione del suo libro — Aldo Cazzullo le scandirà in pubblico, il passo è forse troppo arduo. Ma potrebbe accadere anche questo nel salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio, il 20 ottobre alle 18 quando l’inviato e firma del Corriere della Sera — che sarà introdotto dal sindaco Dario Nardella — presenterà il suo ultimo libro: A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia (Mondadori, collana Strade Blu, 288 pagine, 18 euro).
Di sicuro, però, Monica Guerritore — in occasione dell’incontro organizzato dal Comune di Firenze — leggerà alcuni brani del volume che, uscito lo scorso 22 settembre, è già arrivato alla terza ristampa con oltre centomila copie tirate. Il merito sta in un libro nato come omaggio a Dante (nel 202o ricorrono i 750 anni della sua morte e nel 2021 i 700 anni della sua nascita) ma al tempo stesso come profonda riflessione su cosa sia questa figura: scrittore, politico, storico, fustigatore dei tempi, uomo, soldato. E su cosa Dante abbia lasciato chi quella eredità sia in grado di raccontarla, cosa che appunto fa Cazzullo col piglio dello scrittore catapultato — narrativamente parlando — come inviato nell’Inferno dantesco. «Avevo questo libro in mente da tempo. Poi durante il lockdown — spiega l’autore — mi sono messo a scrivere. Sono stati due mesi fondamentali, intensi. Se ci pensa bene proprio nella Divina Commedia si parla di pandemia: peste e piaghe».
Nel libro lei descrive Firenze in lungo e in largo, facendone un esempio da seguire ma anche una realtà pericolante, da insidiare. E quindi da salvaguardare a tutti i costi. Che effetto le fa presentare il suo volume a Palazzo Vecchio?
«Un bell’effetto. Del resto di fronte a Palazzo Vecchio, che è la sede del Comune, c’è la statua di Donatello, quella che raffigura Giuditta e Oloferne. E poi c’è il Perseo che uccide la
Medusa, che è a custodia dell’Inferno. Siamo in un periodo storico che va dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento. Firenze è la prima metropoli d’Europa in un momento in cui ci sono i primi Stati nazionali. E quelle statue sono lì a dire che a Firenze noi siamo piccoli, rispetto a quegli Stati, ma continuiamo a lottare per la nostra indipendenza e la nostra libertà. È un messaggio fortissimo».
Lei sostiene che l’Italia è nata a Firenze...
«L’Italia è nata a Firenze ed è nata nel momento in cui Dante ci ha regalato la lingua. Ma ci ha dato di più. È stato Dante il primo a parlare di Italia e che si è inventato la definizione del Bel Paese. Per lui l’Italia non è uno Stato, ma un’idea che nasce dalla cultura, dalla bellezza, dalla poesia, dall’arte».
Insomma, è come dire Rinascimento.
«Firenze è la patria morale degli italiani. Per Dante l’Italia ha una missione. L’Italia ha conquistato il mondo due volte: al tempo dell’impero romano e al tempo della cristianità .
Il suo compito è coniugare tradizione classica — Virgilio — con la fede cristiana. In questo senso la cultura umanista nasce a Firenze. Lui è il primo umanista. Lei ha mai pensato al motivo per cui i nostri militari italiani nelle missione di pace all’estero sono considerati i migliori? Perché hanno un dialogo con le popolazioni locali che è una caratteristica che deriva dalla cultura umanista nata proprio a Firenze».
A volte si ha come l’impressione che la «Divina Commedia» la ossessioni. È così?
«È un libro che mi porto dietro da anni. Quando i miei figli erano bambini, ci divertivamo a nominare i Malebranche, che sono i gruppi di diavoli presenti all’inferno: Malacoda, Scarmiglione, Barbariccia, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante. Quando Dante inventa i nomi dei diavoli c’è un’invenzione linguistica che è pazzesca».
Nel suo libro lei avvolge quel mondo a quello contemporaneo, legando tutto l’Inferno di Dante a Lucio Dalla oppure, tanto per citare un altro nome, all’astrattista russo americano Mark Rothko. Perché?
«Quando mi sono messo a scrivere il libro mi sono posto il problema se alleggerire il racconto oppure no. E ho deciso che era giusto raccontare tutto un mondo perché Dante siamo noi, questo poeta ci appartiene. Nel mezzo del cammin di nostra vita, scrive. La parola chiave è “nostra”. Chi non si è smarrito per cercare se stesso?».
Ma secondo lei, a fare un gioco, Dante chi farebbe finire oggi all’Inferno?
«Credo che ne metterebbe tanti. A partire da tutti i corrotti, che Dante chiama barattieri: finirebbero direttamente all’Inferno».