Corriere Fiorentino

Nel distretto del tessile, simbolo del disastro

Nel distretto tessile simbolo del disastro causato dalla pandemia macchinari fermi e magazzini pieni. Ma c’è chi si riorganizz­a

- G. Bernardini

Serrande chiuse, magazzini pieni, macchine ferme. Viaggio nel distretto tessile pratese dove la produzione è crollata di quasi un quarto da gennaio a settembre.

Serrande chiuse, magazzini pieni, macchine ferme e operai spaventati. Nessuno ha detto loro che saranno licenziati. «Ma i giornali si leggono...» sospira amaro Franco, 30 anni, da 5 impiegato in una tintoria industrial­e. Sguardo basso, poca voglia di parlare. Come molti dei titolari delle ditte del distretto tessile pratese, traslocato con i suoi mille rivoli per lo più in provincia, a Montemurlo. La voce corre di piazzale in piazzale, isole dei cicli di produzione da cui trame, pullover e cappotti prendono le vie del mondo. Sempre meno, dicono i numeri dell’Irpet: qui la produzione in 9 mesi è crollata di quasi un quarto, maglia nera tra i distretti toscani, e per tornare ai livelli pre-Covid bisognerà attendere fino al 2027. E nel frattempo resisteche Operai, tecnici, magazzinie­ri, imprendito­ri: tutti sbottano scuotendo la testa di fronte a questa previsione.

«Immagino che con il vaccino i mercati tornino a far quello che facevano prima, ma sono certo che il problema del prossimo anno, qui, sarà far la conta di chi rimane aperto». Lo dice Riccardo Frati, che con la moglie Cristiana guida la ditta di tessuti che porta il suo cognome dal 1968. Ha conosciuto da vicino, uno per uno, i momenti bui del settore. «Ma quelle di prima erano crisi, questa è una guerra. Nel 2001 i Paesi asiatici hanno iniziato a fare il prodotto di media qualità ed è stata una mazzata. Poi c’è stato il 2008. Ora che si rivedeva la luce, sono venuti a galla tutti i limiti del distretto non è stato capace di crescere davvero, di farsi squadra».

A pochi metri dalla Frati, nella parte opposta del piazzale, ci sono altre piccole aziende: rifinizion­i, orditure, tintorie. «Il sistema è in crisi, anche chi sta aperto non lavora», dice Federico, un magazzinie­re che indica i macchinari spenti della sua ditta, che vuole far restare anonima. La vergogna si fa strada nei capannoni, perché la promessa della crisi innescata dalla pandemia — di far vittime industrial­i con la stessa spietatezz­a del Covid — è vissuta da molti come un fallimento personale. «Non ci sono scuse, si lavora e si guadagna e se non si lavora non c’è niente», spiega Federico. Molti degli imprendito­ri con cui siamo andati a parlare lo hanno fatto soltanto lontano dai loro dipendenti: «Non posso farli preoccupar­e».

Tuttavia c’è una parte del distretto che sta tenendo il punto. Emiliano Lunardi è sul muletto e si dà un gran da fare. Le macchine sono accese, i dipendenti all’opera. Lui è proprietar­io dell’orditura Gold, che lavora in stretta collaboraz­ione con i vicini di capannone dei magazzini Bimitex: entrambe le aziende continuano a lavorare. «Produciamo per l’arredament­o: la gente sta tornando a investire sulle case, per noi sono buone notizie», spiega. Nessuno compra vestiti perché non ci sono occasioni di socialità, ma sono in molti a ripensare tappezzeri­e, tende e copridivan­i: una delle soluzioni di rire. conversion­e soft. Un po’ più in là, nella frazione di Oste, ci sono i cenciaioli, antica mansione di selezione degli indumenti usati. Ciro Porzio fa questo mestiere da 15 anni. Nel capannone, con lui, ci sono 5 operai: «Il titolare ha il Covid, ma andiamo avanti lo stesso, speriamo non ci licenzi...». Perché? «Il lavoro cala — chiarisce — e lo fa sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi. Qui facciamo meno 70% rispetto all’anno scorso. Abbiamo tutti paura».

Alla periferia di Prato, in uno dei pochi lanifici di rilievo rimasti nel capoluogo, in queste ore Francesco Bellucci porta avanti i campionari con i suoi 34 operai. «Le aziende cresciute in modo rapido adesso sono le più smarrite. Prima del Covid eravamo presi dal quotidiano, facevamo a meno di alcune riflession­i e di alcune tecnologie: ora è diventato il contrario e se non lo facessimo sarebbe finita. Se avessimo affrontato i problemi aziendali 5 anni fa non avremmo subito questa situazione, ma l’avremmo governata».

Un canto a più voci che scandisce le stesse parole: sostenibil­ità, tecnologia e aggregazio­ni. Le imprese più strutturat­e si muovono così: chi come Sarti concentran­do su tessuti innovativi e sostenibil­i le loro energie produttive, chi come Bellucci digitalizz­ando le collezioni e programman­do incontri telematici con i clienti. L’unico scalino ancora altissimo pare quello delle aggregazio­ni in un settore così frammentat­o: non a caso Confindust­ria Toscana Nord organizzer­à il prossimo 3 dicembre un focus online su questo tema. «Avevo proposto un consorzio già tanti anni fa, è l’unica via per affrontare di nuovo il mercato: se non ci alleiamo — sentenzia Riccardo Sarti — a breve si va a finir mangiati».

❞ Frati Col vaccino i mercati torneranno a fare quello che facevano prima, ma sono certo che qui il prossimo anno il problema sarà fare la conta di chi è rimasto aperto

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Una lunga attesa La merce che affolla uno dei tanti magazzini delle ditte tessili a Oste di Montemurlo

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