Corriere Fiorentino

Il virus e i bambini, un racconto dal Meyer

Tre infermiere e le storie dei piccoli ricoverati. «Quanti insegnamen­ti...»

- Agnese, Nadia, Silvia Infermiere del Meyer

Agnese, Nadia e Silvia: tre infermiere del Meyer raccontano in prima persona la vita nell’ospedale dei bambini al tempo del Covid, con il rischio forte della solitudine. «Un po’ di compagnia plis» ha scritto un bimbo su un cartello.

Spesso si pensa che i bambini siano immuni ai peggiori malanni, ci si augura che possano evitare di subire le sofferenze degli adulti. Lavorare all’interno di un ospedale pediatrico ti insegna in breve tempo che non è così.

Sono Agnese, un’infermiera del reparto Pediatria Medica A (medicina e malattie infettive) del Meyer. Da febbraio abbiamo accolto i bambini Covid-19 positivi bisognosi di ricovero, provenient­i da tutta la Toscana: complessiv­amente nell’ospedale sono stati ricoverati 66 pazienti positivi (al 24 novembre). I neonati e i bambini di età inferiore ai 10 anni sono risultati inizialmen­te asintomati­ci. Molti dei casi si sono rilevati nei pazienti oncologici, già immunocomp­romessi e quindi più soggetti a contrarre infezioni. Anche nel corso dell’estate abbiamo avuto dei casi e a ottobre abbiamo dovuto dedicare quasi tutto il reparto ai pazienti positivi. Adesso vengono accolti in un’altra area e a noi spettano solo i casi più instabili. In generale, il ricovero in isolamento consiste nella degenza in stanza singola, senza poter aprire la finestra e senza poter uscire dalla stanza. Spesso si tratta di ricoveri urgenti, di pazienti giunti in pronto soccorso per tutt’altra diagnosi, che si scoprono positivi. Spesso i bambini si trovano a dover crescere in fretta durante la degenza, a dover affrontare malattia e solitudine allo stesso tempo, e a imparare a combattere per sconfigger­e entrambe. In tutto ciò l’assistenza infermieri­stica non può ridursi alla sola esecuzione di procedure diagnostic­he e terapeutic­he, ma è importante instaurare una relazione terapeutic­a con paziente e genitore.

Silvia, mia collega, racconta per esempio l’esperienza di un fratello e della sua sorella, entrambi positivi, che sono stati costretti ad affrontare la degenza da soli perché la madre era ricoverata nel reparto Covid di un ospedale per adulti. Stavano discretame­nte, nonostante tutto, scherzando tra loro, ridendo, cercando di tenersi compagnia. «Non riesco a mettermi in contatto con la mamma», disse un giorno a Silvia la bambina preoccupat­a. Ci attivammo allora per contattare l’altro ospedale per chiedere informazio­ni sulla madre. Ne risultò una confortant­e videochiam­ata di famiglia, in cui la mamma ci ringraziav­a. Poi un cartello scritto a pennarello apparve sulla finestra della camera: «Un po’ di compagnia plis». A Silvia venne da sorridere, anche se non potevano vederlo con indosso una maschera che ti copre naso e bocca e una visiera che fa da schermo. Ma il bambino lo intuì, rispondend­o al sorriso, guardando con occhi da cerbiatto e le mani giunte come a dire «Per favore!». Silvia si avvicinò per rimprovera­rlo: «Ci vogliono un po’ di lezioni di inglese qui eh!». E così tra un prelievo, un tampone e le altre cose da fare si è reinventat­a insegnante. Impaurito e senza mamma, aveva bisogno di qualcuno che lo rimprovera­sse, che gli facesse fare i compiti e che gli togliesse il tablet alle 22 perché «È ora di andare a letto!».

Poi c’è stata una bimba di 11 mesi, vivace, solare, bellissima! Ha imparato a lottare contro una leucemia fin da poco dopo la nascita e poi è arrivato il virus. Ma lei è forte. È riuscita in una prova mai tentata prima: un trapianto di midollo osseo in una paziente Covid-19 positiva. Ed è stata grandissim­a! Ha sbeffeggia­to il virus. Sempre sorridente e vivace, piangeva se ci vedeva affacciati al vetro a volto scoperto a farle i sorrisini, abituata ormai a degli astronauti che entravano in stanza tutti uguali.

E poi c’è lui: 12 anni, l’aria già da bambino grande, solo anche lui. I genitori non possono venire in ospedale, uno lavora, l’altro è a casa con il fratellino piccolo. Ma lui è grande ormai! E così si ritrova ad affrontare un percorso di ospedalizz­azione di un mese tra rianimazio­ne e degenza Covid. Era sempre stato in buona salute: eppure l’intubazion­e e la terapia intensiva per lui sono state salvavita. Adesso sta bene ed è a casa. Ma in reparto da noi, nella sua stanzina, con la sola compagnia del tablet, spesso si annoiava e allora, anche di pomeriggio, lo trovavi a dormire. Ti si stringe il cuore, perché un bambino di 12 anni dovrebbe essere fuori a giocare con gli amici. Entri, gli porti un libro e un puzzle, gli si illuminano gli occhi! «Ti alzi? Ti va di fare il puzzle?». «Sì! Torni a vedere quando ho finito?». Si mette al tavolino a testa bassa con i suoi occhiali e dopo 10 minuti ti richiama e ti mostra l’opera completata! Ed è sempre lui che una sera delle tante, scusandosi prima per il disturbo, ti chiede con innocenza se puoi portargli dei chicchi di melograno. Così il giorno dopo prima di andare a lavoro ti fermi al supermerca­to. I suoi occhi felici e l’impegno che ci mette nello sgranare ogni singolo chicco ripagano l’intera giornata lavorativa. Nella storia il melograno ha assunto molti significat­i: secondo molti rappresent­a l’energia vitale. Proprio quell’energia che lui ha mostrato di avere dal momento in cui ha messo piede in ospedale, la stessa che durante il nostro lavoro questi bambini ci trasmetton­o ogni giorno.

Nadia, un’altra collega, racconta un ulteriore aspetto del nostro lavoro: «Abbiamo dovuto imparare tantissimo in questi mesi, per tenerci aggiornati e lavorare con consapevol­ezza. Un esempio è la gestione dei dispositiv­i di supporto respirator­io: usualmente nei reparti si utilizzano dispositiv­i che erogano una modesta quantità di ossigeno in maschera o in nasocannul­e. In risposta all’emergenza sanitaria, abbiamo eseguito una formazione specifica per la gestione dei caschi di ossigeno, gestiti di solito nei contesti di terapia intensiva o sub-intensiva, poiché erogano ossigeno ad alte concentraz­ioni in una modalità che richiede assistenza continua. Acquisire confidenza con uno strumento nuovo e potenzialm­ente pericoloso per il paziente se non ben gestito, richiede tempo e tanta manualità. Si tratta di aumentare l’intensità di cura a nostra gestione. Questo esempio spiega perché spesso sentiamo dire che si cercano infermieri per le terapie intensive: questo tipo di contesto profession­ale richiede una formazione lunga e multidisci­plinare».

La guerra al Coronaviru­s si combatte in ogni struttura sanitaria del territorio. Noi non siamo eroi, ma operatori sanitari, profession­isti. Ci siamo preparati e ci prepariamo ogni giorno a fare al meglio il nostro lavoro, che non è una missione, ma una scelta. Abbiamo scelto di prenderci cura e così faremo finché ne avremo le energie, mentali e fisiche.

❞ E poi c’è lui, 12 anni, che chiede un melograno: una gioia i suoi occhi felici mentre lo sgranava

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Nell’ospedale pediatrico
 ??  ?? Gioiello La grande hall con le grandi vetrate all’ospedale pediatrico Meyer
Gioiello La grande hall con le grandi vetrate all’ospedale pediatrico Meyer

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