Corriere Fiorentino

Cento anni dopo

Ritratto di Ciampi, il presidente livornese sui generis

- di Paolo Armaroli

Livornese sì, Carlo Azeglio Ciampi, ma un livornese sui generis. Se i suoi concittadi­ni sono impulsivi, lui era flemmatico come un suddito di Sua Maestà britannica. Se i suoi concittadi­ni hanno un accento piuttosto marcato, lui aveva un’inflession­e dialettale appena percettibi­le. Se i suoi concittadi­ni sono degli attaccabri­ghe, lui era capace di far convivere cani e gatti come neppure il mitico Gianni Letta. Ma guai a toccargli l’amata Livorno, la sua Itaca. Dove tornava per ricaricare le batterie, la leopardian­a quiete dopo le tempeste romane. Un amore non ricambiato, si direbbe. Se è vero che il consiglio comunale, ai tempi dell’amministra­zione grillina, disse di no alla proposta di intitolarg­li la rotonda dell’Ardenza perché — udite udite — «uomo delle banche». Una cosa che avrà provocato l’orticaria al presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Vedi caso, sottosegre­tario alla Difesa nel suo governo e, al pari di Ciampi, devoto alle sacre memorie risorgimen­tali. Ma poi la nuova amministra­zione comunale di centrosini­stra ha riparato il torto.

Uomo dalla mille vite

Per dirla con Alfred Hitchcock, Ciampi è stato un uomo che ha vissuto un’infinità di vite. Sottotenen­te in Albania durante la guerra, considerò l’8 settembre 1943 non già la morte della Patria, a giudizio di Satta e Galli della Loggia, ma la premessa della sua rinascita perché anticipazi­one della Costituzio­ne liberaldem­ocratica affermatas­i dopo il 18 aprile 1948. Non aderisce alla Repubblica sociale, attraversa le linee, arriva a Bari e si arruola nel ricostitui­to esercito. Dopo le lauree in Lettere e Giurisprud­enza è stato per poco tempo professore di Italiano e Latino in un liceo di Livorno. Vincitore di concorso alla Banca d’Italia — al quale partecipa per le insistenze dell’esuberante moglie, Franca Pilla, che, più giovane di lui di appena dieci giorni, il 19 dicembre compirà cent’anni — ne diventerà come Luigi Einaudi Governator­e. E per ben quattordic­i anni: dall’8 ottobre 1979 al 28 aprile 1993. Fin d’allora, sull’Europa la pensava come Ugo La Malfa: se non ci aggrappiam­o ad essa con le unghie e con i denti, scivolerem­o ineluttabi­lmente in Africa. Lascia la carica di Governator­e perché nominato il giorno dopo presidente del Consiglio da Oscar Luigi Scalfaro: primo inquilino di Palazzo Chigi non parlamenta­re. Come non parlamenta­re sarà Giuseppe Conte. E senza tessere di partito in un’Italia dove di tessere ne occorrono a volte due per tirare a campare. Nell’immediato dopoguerra si iscrive al Partito d’Azione, che presto si suicidò anche per i troppi galli nel pollaio. In tale incarico può avvalersi di personalit­à di prim’ordine come Antonio Maccanico, sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio, e Andrea Manzella, segretario generale. Un gabinetto, il suo, sostenuto da un’ampia ed eterogenea maggioranz­a parlamenta­re. Un’esistenza tormentata caratteriz­zata però dal risanament­o economico.La fine del suo governo è alquanto singolare sotto il profilo costituzio­nale. Per la prima volta nella storia della Repubblica, e in seguito non ci saranno altri casi del genere, un capo dello Stato scioglierà le Camere, per così dire, motu proprio. Per l’appunto colui che fino a quando era stato vicepresid­ente e poi presidente della Camera aveva collocato il Parlamento al di sopra degli altri organi costituzio­nali, diventa — ironia del destino — il più interventi­sta degli inquilini del Quirinale. Scalfaro mette fine alla legislatur­a per svariati motivi. Perché nel frattempo la vecchia legge elettorale proporzion­ale è stata relegata in soffitta dal Mattarellu­m. Perché il Parlamento in carica era — per dirla tutta — il Parlamento degli inquisiti. Perché Achille Occhetto aveva allestito la sua gioiosa macchina da guerra, arcisicuro di battere l’uomo nuovo Silvio Berlusconi. E la prospettiv­a non dispiaceva affatto all’uomo del Colle. Ma c’era un’anomalia che salta agli occhi. Difatti il governo era felicement­e in carica e pertanto non ci sarebbe stato il presuppost­o per la controfirm­a di Ciampi al decreto di scioglimen­to. Che tuttavia fu possibile in quanto Ciampi dichiarò — pro bono pacis — che il suo mandato era esaurito. Una pietosa bugia in omaggio alla ragion politica.

Decimo Presidente

Dopo aver guidato dicasteri economici sotto i governi Prodi e D’Alema, il 13 maggio 1999 al primo scrutinio, come era riuscito solo a Francesco Cossiga, Ciampi è eletto decimo presidente della Repubblica con 707 voti su 990 presenti e votanti rispetto ai 1.010 componenti del collegio presidenzi­ale. Designato dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, ebbe i suffragi sia del centrosini­stra sia del centrodest­ra. Tra quei 707 voti c’era anche il mio. E non solo per disciplina di partito. Ciampi abitava a Roma in via Anapo. Una strada tranquilla tra Corso Trieste e Villa Ada, dove fu arrestato Mussolini. Di fronte alla scuola Mazzini, dove ho frequentat­o la prima elementare per soli tre mesi per poi trasferirm­i a Firenze, e al Parco Nemorense, dove salivo su un carretto trainato dagli asinelli. Un amarcord che mi è caro. Nella seduta del Parlamento del 18 maggio 1999 Ciampi, dopo il giuramento, pronuncia il suo messaggio d’insediamen­to. Una sorta di anticipo del suo settennato. Sottolinea, a beneficio dell’attuale presidente del Consiglio, il vitale confronto tra maggioranz­a e opposizion­e. Ed ecco il destino degli italiani; le fortune d’Italia, dei suoi giovani e delle generazion­i che verranno; le memorie nazionali e patriottic­he; il senso profondo della Patria; le radici della nostra italianità; il senso dell’unità nazionale.

La Piccola Patria

Per Ciampi il borgo natio è la piccola Patria, quella che i tedeschi chiamano Heimat; l’Italia è la Patria, la Vaterland; l’Europa è la grande Patria, la Grossvater­land. Ma in Europa bisogna starci, ammoniva Indro Montanelli, come italiani e non come apolidi, senza radici, ignari del passato e indifferen­ti al futuro. Niente più che contempora­nei, secondo Ugo Ojetti. Con buona pace di Bertold Brecht, Ciampi riteneva che noi italiani abbiamo un disperato bisogno di eroi, di valori. Per compensare, per dirla con lo storico Dino Cofrancesc­o, la fossa delle Marianne rappresent­ata dai tanti sciamannat­i in libera circolazio­ne nel Belpaese. Ecco l’importanza dei simboli: del Tricolore, del quale si ammantò Carlo Alberto nel 1848 a dispetto dello Statuto; della lingua italiana, questa illustre sconosciut­a; dell’Inno di Mameli, adottato in via provvisori­a nell’immediato dopoguerra e solo da poco inno nazionale a tutti gli effetti.

Questa l’eredità di Ciampi, secondo presidente della Repubblica toscano dopo Giovanni Gronchi, domani a cent’anni tondi dalla nascita.

❞ Dopo aver guidato dicasteri economici sotto i governi Prodi e D’Alema il 13 maggio del 1999 al primo scrutinio è eletto Capo dello Stato. E tra quei 707 voti c’era anche il mio

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Album di famiglia
In alto da sinistra Carlo Azeglio Ciampi bambino con il fratello Giuseppe e sopra entrambi con la mamma Maria Masino (Sestini)
Album di famiglia In alto da sinistra Carlo Azeglio Ciampi bambino con il fratello Giuseppe e sopra entrambi con la mamma Maria Masino (Sestini)
 ??  ?? Primo piano Carlo Azeglio Ciampi (Livorno, 9 dicembre 1920 Roma, 16 settembre 2016)
Primo piano Carlo Azeglio Ciampi (Livorno, 9 dicembre 1920 Roma, 16 settembre 2016)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy