Il virus reale e immaginario
Il libro Epidemie vecchie e nuove lette con l’arte, la storia, il cinema. Nel saggio di Amendola le tracce per capire paure ancestrali e la nostra reazione, spesso identica a quella del passato
Si può vedere il virus col microscopio, ma noi lo percepiamo, lo viviamo, lo sentiamo attraverso la nostra cultura, in senso antropologico. Con la nostra storia, con le nostre paure che derivano dal nostro immaginario più che dalla nostra educazione (cultura come conoscenza scientifica). Se pensate non sia così, provate a mettere a fronte cosa succede oggi con altre epidemie, lontane e recenti, come ha fatto Giandomenico Amendola con L’immaginario e le epidemie.
Scoprirete che la «caccia agli untori» della peste nel ‘600 puntava a chi era meno colpito dalla malattia: allora gli ebrei (che si ammalavano di meno perché avevano un’educazione a misure igieniche più elevata di quella degli italiani dell’epoca). E oggi? I cinesi e gli immigrati (qui da noi, nei loro Paesi a volte è diverso). Oppure scoprirete che furono le statistiche della parrocchie, tra cui quella di San Lorenzo, con i morti che crescevano a dismisura, a rendere plastico l’arrivo dell’onda prima negata. Che le ondate di peste — impossibili da fermare allora — furono rallentate a Firenze (molto meno di oggi) con un lockdown che arrivò fino a Natale, con tanto di polemiche sulle cerimonie religiose annullate. Cambia la scienza, cambia la tecnologia, ma l’uomo vive del suo immaginario. Così come nel 1918, per la pandemia della Spagnola, gli Usa attaccarono la tedesca Bayern ipotizzando di aver diffuso «il virus con l’aspirina»: la Bayern di oggi è il laboratorio di virologi presente a Wuhan (ma il covid è arrivato dagli animali, la scienza ci dice, anche se qualcuno ancora non ci crede). Si scopre tutto questo, e molto altro, nel libro curato dal sociologo Amendola. Non è un libro «sulla» pandemia. È un libro su di noi, sul perché percepiamo, reagiamo, viviamo questa pandemia con automatismi a volte imprevedibili (ma solo perché non ci conosciamo bene). Si parla di letteratura, di storia, di cinema, di arte barocca ma anche molto di città, delle nostre città. Che, come la peste in Italia e a Firenze, o l’epidemia a Londra, restano i luoghi più deboli per resistere ai virus: ma anche quelli dove cambia l’impatto nella nostra coscienza.
«L’immaginario non è una semplice superficie riflettente ma, come affermano ormai molti studiosi, un principio produttivo della realtà» ricorda Amendola. E così la fake news della produzione del virus in laboratorio diviene credibile perché nel nostro bagaglio culturale ci sono film e libri (narrazioni) simili, che scatenano riflessi pavloviani (studiati ormai da più università, tra cui l’Imt di Lucca) di far percepire più credibile l’ipotesi immaginifica che la realtà della scienza. Ma è un po’ sempre stato così. «Un immaginario articolato e stratificato, avvolge la nostra esperienza dalle epidemie lontane ed attuali. Ciò avviene anche se siamo convinti di incontrare direttamente la realtà senza filtri intermedi per la continua informazione che, grazie ai dati ed al contributo di scienziati, viene presentata come assolutamente oggettiva» ricorda Amendola nell’introduzione. Solo che tutto salta, perché «la mediatizzazione dell’epidemia contagia anche la scienza imponendole accelerazioni non compatibili con i tempi della ricerca. L’esperto X o il professore Y affermano in tv che il virus si sta indebolendo ma altri scienziati, la maggioranza, smentiscono immediatamente l’affermazione in quanto non provata dalle ricerche. Noi, ascoltatori spaventati e manipolabili, siamo esposti ad entrambe le teorie che introiettiamo anche inconsapevolmente». Perché alla fine «nell’incertezza trova spazio l’immaginario». Un immaginario che il volume ricostruisce da Edgar Morin a Alessandro Manzoni, da Giulio Verne a Dino Buzzati per finire con Outbreak di Wolfgang Petersen o La città verrà distrutta all’Alba del genio argentino George A. Romero.
Il volume, edito da Mario Adda Editore, è una collezioni di saggi, tra cui uno sulle Cronache e racconti della peste: Firenze, Roma e Napoli, di Antonio Ciuffreda. Il suo racconto di Firenze passa anche dai lazzaretti, gli «alberghi sanitari» (senza sanità) dell’epoca. Ed anche allora, nel 1630, nonostante alla fine le scelte fiorentine furono tra le più efficaci, «la consapevolezza di avere a che fare con la peste, certamente pure per ragioni di ordine pubblico, giunge in ritardo e quando ormai il livello di mortalità è troppo alto». Tutto torna. Si fugge dalla città (allora come oggi, hanno dimostrato i dati georeferenziati di Facebook). Ma all’inizio, nel ‘600, i malati finivano a Santa Maria Nuova, a San Miniato, alla Badia Fiesolana, prima di essere spostati fuori città, in luoghi deputati (quante similitudini con il nostro quotidiano). Ecco, alla fine, c’è l’immaginario ma c’è pure la realtà: le città cambiarono, dopo le epidemie, si iniziò a migliorare le condizioni igienico sanitarie (si pensava la peste arrivasse dai «miasmi»), a Firenze come a Londra. Perché, ricorda Amendola, «l’epidemia e le malattie, è la tesi di Richardson, si combattono con una città diversa in cui tutto, dalle strade alle case, è realizzato secondo i principi dell’igiene». E magari anche quelle riusciranno a cambiare il nostro immaginario.