LA CASACCA CAMBIA, L’ITALIA NO
LE CASACCHE CAMBIANO MA L’ITALIA NO
Ha scritto Massimo Franco sul Corriere del 16 gennaio che per coloro che si preparano a salvare Conte, tutti eletti in formazioni politiche eterogenee, la «responsabilità» di cui si fregiano non sarebbe altro che «un eufemismo per velare il trasformismo». Il trasformismo, in effetti, è uno dei maggiori e più duraturi protagonisti della storia d’Italia dal 1876, anno della caduta della Destra storica, sino a oggi. Si può dire, anzi, che costituisca l’altra faccia della fragilità che ha caratterizzato i governi dallo Stato liberale allo Stato repubblicano. Circa 130 governi in 160 anni, con in mezzo il ventennio fascista, che della fragilità dei governi dello Stato liberale fu, in gran parte, figlio. Il trasformismo si genera dalla crisi o dal dissolvimento dei partiti, come accadde con il governo Depretis nel 1876. Agostino Depretis veniva dalla sinistra, ma aveva già fatto parte dei governi della Destra storica. In più, come piemontese, era sempre ben visto dal «partito di corte» che gravitava intorno al Re, Vittorio Emanuele II. La sinistra non aveva vinto le elezioni del 1874, ma la Destra era divisa. In particolare si era distaccata la potente «consorteria» toscana, vero nerbo della Destra storica sino al 1870, con personaggi come il barone Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour e poi nel 1866, in un momento drammatico della storia del giovane stato unitario, impegnato nella Terza guerra d’indipendenza.
La «consorteria», che contava su una quindicina di deputati, era malcontenta per come la città di Firenze era stata trattata per le ingenti spese affrontate nel breve periodo in cui fu capitale dal 1865 al 1870. Tanto è vero che lo stesso Comune e alcuni importanti istituti bancari, come la Cassa di Risparmio, rischiarono la «bancarotta». Anzi, il Comune di Firenze fu addirittura commissariato. Poi i «consorti» fiorentini erano anche contrari alla statalizzazione delle ferrovie. Depretis, quindi, fu incaricato dal Re di formare un governo senza una chiara maggioranza. Maggioranza che arrivò con le elezioni del novembre del 1876 e con il solerte impiego dei prefetti durante il voto. In realtà i governi hanno sempre dei buoni motivi per convincere i candidati e gli elettori delle varie province. Va detto, però, che il trasformismo si presenta sempre con facce e modalità diverse. Può essere un buon mezzo per inglobare e costituzionalizzare forze politiche o personalità provenienti dal radicalismo o, addirittura, antisistema. Ancora può funzionare quando le forze di centro sono robuste e possono attrarre a sé altre forze da sinistra e da destra. Così fece Giovanni Giolitti nel periodo che viene definito «giolittiano», dalla crisi di fine secolo al 1914. Dopo la grande guerra, però, né Nitti, né Giolitti riuscirono ad attrarre nell’area di governo i massimalisti rivoluzionari che guidavano il Psi, o Mussolini, che il vecchio statista tentò di assimilare con le elezioni del 1921. Anche durante la prima repubblica non mancarono grandi tessitori di operazioni «trasformistiche», e cioè di assimilazione nell’area di governo di forze come il Psi e il Pci, altrimenti votate ad una funzione antisistema. Allora, finché durò, esisteva un solido partito di centro, come la Dc, che poteva garantire, anche se in chiave «consociativa», l’azione di governo. Il consociativismo non era in linea con la logica dell’alternanza, tipica delle liberal democrazie occidentali, ma, con un sistema istituzionale fondato sul parlamentarismo partitocratico e con un sistema elettorale proporzionale, era quasi inevitabile. Il prezzo del «consociativismo» in termini economici si scaricò sul debito pubblico, ma in termini politici corrose la credibilità dei partiti. E si arrivò alla crisi della prima repubblica. Nessuno, da De Gasperi a Craxi, e nemmeno ben tre commissioni bicamerali, riuscì a riformare le istituzioni, e le sole riforme elettorali non bastarono.
Oggi l’abbaglio del bipolarismo, che non ha mai ben funzionato, è arrivato al capolinea con il ritorno al sistema proporzionale. Ma anche con due governi in due anni, uno più conflittuale dell’altro. Oggi, però, il trasformismo non si può nemmeno avvalere di un solido partito di centro, perché proprio un centro riconoscibile non c’è più da tempo. I convertiti al centro, almeno sinora, non hanno convinto gli elettori. Per questo, anche se Conte riuscirà a trovare i voti alla Camera e al Senato, molti si chiedono come potrà con una maggioranza così eterogenea affrontare la più grave crisi, sanitaria, economica e sociale, della storia repubblicana. Come potrà rendere efficace e operativo il piano del Recovery Fund di fronte alla nuova maggioranza e, nello stesso tempo, convincere l’Europa? Ci vorrebbe un miracolo come quello del ponte di Genova e un grande architetto come Renzo Piano per far quadrare i conti e tenere in piedi il Paese.