METTERE AL CENTRO I GIOVANI
Provate a convincere adesso un diciottenne che aveva ragione Ennio Flaiano quando sosteneva che i giorni memorabili per un uomo sono cinque o sei perché gli altri, alla fine, fanno solo volume. Solo tra molti anni potrà comprendere l’ironia ed anche la verità di questo tra i più fulminanti aforismi dello scrittore.
Per ora quel che manca ai più giovani è proprio quel volume, la quotidianità, e forse anche la sola possibilità di poter rincorrere uno di quei rari giorni memorabili. Il puntuale dossier di Antonio Montanaro pubblicato ieri su questo giornale e le testimonianze che lo corredano a proposito di una generazione, la più giovane, la cui stessa salute mentale è sottoposta a rischi che non vanno ingigantiti ma neanche sottovalutati, sottolineano una ulteriore emergenza tra quelle connesse alla pandemia. Se si potesse schematizzare si potrebbe dire che ogni generazione in questo momento ha i suoi rischi maggiori: i nonni quello di concludere la loro vita anzitempo e, per loro che ne hanno viste di tanti colori, nel modo più subdolo e imprevisto; gli adulti la perdita di molto di quanto avevano realizzato con fatica, a causa di una crisi economica che, anche quando sarà superata, non lascerà niente come prima. Gli adolescenti e i giovanissimi portano dentro loro stessi il rischio di dover fare a meno di un pezzo importante di ciò che avrebbero potuto essere.
E non ci saranno ristori sufficienti per un anno vissuto a far lezione davanti a un pc o un tablet, a non far nascere e coltivare amicizie e amori, a vivere rinchiusi con la continua tentazione del niente. E, diciamolo francamente, anche gravati dalla frequente identificazione con i nuovi untori, gli irresponsabili, quelli che si assembrano senza mascherina in una narrazione comune che spesso scambia una parte per il tutto. Eppure, vista da vicino, la maggior parte dei ragazzi mostra una maturità e una capacità critica e autocritica che la pandemia non ha piegato, anzi, ma che sembra sfuggire agli osservatori più disattenti. La generazione che ha svegliato il mondo sulle grandi questioni del clima e dell’ambiente sembra adesso disorientata non tanto dal doversi accontentare di crescere davanti allo specchio di casa, bensì dalla delusione, dalla mancanza di una prospettiva non certa ma almeno credibile, dall’assenza di modelli da imitare o da criticare al posto dei quali c’è sovente solo lo squallore dei furbetti della fila per il vaccino, la sottolineatura plastica del fatto che anche, o forse soprattutto, in una emergenza c’è sempre qualcuno più uguale di un altro e, diversamente da quanto hanno loro raccontato, nelle difficoltà prevalgono le differenze di appartenenza sociale che la nostra Costituzione vorrebbe rimuovere. Le delusioni sono una delle ferite più profonde che i giovani subiscono da sempre, anche quando i rischi sono stati molto più alti di adesso come in una trincea di cento anni fa o nella Sarajevo assediata dai cecchini, ma non è un buon motivo per spanderla a piene mani ora che in gioco non c’è per fortuna la sopravvivenza. La responsabilità verso di loro, in sostanza, è quella di non offrire scenari di speranza nonostante l’altisonante nome assunto dagli interventi dell’Europa: New Generation Eu. Il maestro dei «maestri di strada» Cesare Moreno, uno che di scuola ne sa abbastanza, sostiene che ciò che manca a questi ragazzi è «consolazione e sostegno». E se il primo non può esaurirsi nei pur generosi tentativi di mettere continuamente pezze a una didattica sfracellata sugli scogli della pandemia, la seconda può solo venire da una visione che li rimetta davvero al centro di una scommessa per il futuro.