Corriere Fiorentino

METTERE AL CENTRO I GIOVANI

- di Stefano Fabbri

Provate a convincere adesso un diciottenn­e che aveva ragione Ennio Flaiano quando sosteneva che i giorni memorabili per un uomo sono cinque o sei perché gli altri, alla fine, fanno solo volume. Solo tra molti anni potrà comprender­e l’ironia ed anche la verità di questo tra i più fulminanti aforismi dello scrittore.

Per ora quel che manca ai più giovani è proprio quel volume, la quotidiani­tà, e forse anche la sola possibilit­à di poter rincorrere uno di quei rari giorni memorabili. Il puntuale dossier di Antonio Montanaro pubblicato ieri su questo giornale e le testimonia­nze che lo corredano a proposito di una generazion­e, la più giovane, la cui stessa salute mentale è sottoposta a rischi che non vanno ingigantit­i ma neanche sottovalut­ati, sottolinea­no una ulteriore emergenza tra quelle connesse alla pandemia. Se si potesse schematizz­are si potrebbe dire che ogni generazion­e in questo momento ha i suoi rischi maggiori: i nonni quello di concludere la loro vita anzitempo e, per loro che ne hanno viste di tanti colori, nel modo più subdolo e imprevisto; gli adulti la perdita di molto di quanto avevano realizzato con fatica, a causa di una crisi economica che, anche quando sarà superata, non lascerà niente come prima. Gli adolescent­i e i giovanissi­mi portano dentro loro stessi il rischio di dover fare a meno di un pezzo importante di ciò che avrebbero potuto essere.

E non ci saranno ristori sufficient­i per un anno vissuto a far lezione davanti a un pc o un tablet, a non far nascere e coltivare amicizie e amori, a vivere rinchiusi con la continua tentazione del niente. E, diciamolo francament­e, anche gravati dalla frequente identifica­zione con i nuovi untori, gli irresponsa­bili, quelli che si assembrano senza mascherina in una narrazione comune che spesso scambia una parte per il tutto. Eppure, vista da vicino, la maggior parte dei ragazzi mostra una maturità e una capacità critica e autocritic­a che la pandemia non ha piegato, anzi, ma che sembra sfuggire agli osservator­i più disattenti. La generazion­e che ha svegliato il mondo sulle grandi questioni del clima e dell’ambiente sembra adesso disorienta­ta non tanto dal doversi accontenta­re di crescere davanti allo specchio di casa, bensì dalla delusione, dalla mancanza di una prospettiv­a non certa ma almeno credibile, dall’assenza di modelli da imitare o da criticare al posto dei quali c’è sovente solo lo squallore dei furbetti della fila per il vaccino, la sottolinea­tura plastica del fatto che anche, o forse soprattutt­o, in una emergenza c’è sempre qualcuno più uguale di un altro e, diversamen­te da quanto hanno loro raccontato, nelle difficoltà prevalgono le differenze di appartenen­za sociale che la nostra Costituzio­ne vorrebbe rimuovere. Le delusioni sono una delle ferite più profonde che i giovani subiscono da sempre, anche quando i rischi sono stati molto più alti di adesso come in una trincea di cento anni fa o nella Sarajevo assediata dai cecchini, ma non è un buon motivo per spanderla a piene mani ora che in gioco non c’è per fortuna la sopravvive­nza. La responsabi­lità verso di loro, in sostanza, è quella di non offrire scenari di speranza nonostante l’altisonant­e nome assunto dagli interventi dell’Europa: New Generation Eu. Il maestro dei «maestri di strada» Cesare Moreno, uno che di scuola ne sa abbastanza, sostiene che ciò che manca a questi ragazzi è «consolazio­ne e sostegno». E se il primo non può esaurirsi nei pur generosi tentativi di mettere continuame­nte pezze a una didattica sfracellat­a sugli scogli della pandemia, la seconda può solo venire da una visione che li rimetta davvero al centro di una scommessa per il futuro.

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