Corriere Fiorentino

Dante esule in lotta Fino alla disfatta

Dopo la condanna a morte e all’esilio il Poeta rimase vicino a Firenze tramando per tornare nella sua città anche con la forza e con le armi. Ma le nuove alleanze e le guerre non servirono. Nel suo destino c’era Verona

- Di Mauro Bonciani

«Fu il nostro poeta d’animo alto e disdegnoso molto, molto similmente presunse di sé, né gli parve meno valere che el valesse» e così Dante, una volta esiliato dalla sua Firenze, non stette certo con le mani in mano. Era esule, sì, con pochi mezzi e moglie e figli rimasti a Firenze, con alcuni dei suoi compagni Guelfi Bianchi che non avevano condiviso la sua animosità verso Bonifacio VIII, ma era pur sempre un leader politico, un protagonis­ta, convinto di essere dalla parte del giusto.

Era esule, ma non era solo — altri Bianchi erano stati cacciati e prima ancora i fiorentini Ghibellini — e forte del fatto che i cambiament­i di governo e di potere in riva all’Arno erano frequenti, l’Alighieri rimase vicino a Fiorenza, in territorio toscano, tramando per tornare anche con la forza delle armi. La condanna a morte era un motivo in più per non aver timore di usare le maniere forti contro quei Guelfi Neri a cui lui non riconoscev­a alcuna legittimit­à, e così fece parte comune con gli altri fuggiaschi, sposando l’alleanza con i prima detestati Ghibellini, su tutti i Magnati di antica potenza e orgoglio come gli Uberti e gli Ubaldini. Era la primavera 1302, cioè pochi mesi dopo la sua condanna per baratteria ed il bando dalla città e dalle cariche pubbliche, poche settimane più tardi della condanna a morte se fosse tornato in territorio fiorentino, quando i Bianchi siglarono l’alleanza con i Ghibellini nel castello di Gargonza, nell’aretino. Dante era presente, ma anche Vieri de’ Cerchi, il capo dei Bianchi, e il patto militare scatenò la guerra nel Valdarno, con i primi insperati successi della conquista dei castelli di Figline e Piantravig­ne, sottratti così all’odiata Firenze Nera. In città intanto le notizie provenient­i dal contado portarono all’inasprimen­to della repression­e verso i Bianchi, dando fiato a chi diceva che erano sempre stati ghibellini «travestiti» da guelfi e al partito filo-Bonifacio, e così agli esuli non rimase che rilanciare. L’8 giugno, nel castello dei conti Guidi a San Godenzo, nel Mugello, Dante ed altri 16 ribelli — compresi Magnati ghibellini come gli Uberti ed i Pazzi — si impegnaron­o a risarcire gli Ubaldini di ogni danno che potesse arrivare loro dall’imminente impresa militare contro Firenze, facendo sì che in città si scrivesse «Chè furon guelfi, ed or son ghibellini/ da ora innanzi sian detti ribelli /nemici del Comun come gli Uberti» e si serrassero le fila.

E la guerra scoppiò, con i successi per gli esuli anche a Gaville e Ganghereto, la sollevazio­ne di Montagliar­i e Montauto, ma poi le cose girarono al peggio, gli alleati retrocedet­tero sia in Mugello che in Romagna (che allora, e per secoli ancora, era in parte toscana), Carlino de’ Pazzi lì tradì per 400 fiorini d’oro riconsegna­ndo Piantravig­ne ai fiorentini, e Dante fu tra gli esuli che si recarono nell’autunno a Forlì chiedendo che Scarpetta degli Ordelaffi, famiglia ghibellina che dominava sulla città, guidasse l’esercito guelfo-ghibellino. La scelta di Scarpetta forse fu dovuta al fatto che podestà di Firenze, eletto dai Neri, era Fulcieri da Calboli, membro della famiglia guelfa forlivese fiera avversaria degli Ordelaffi — «Uomo feroce e crudele», come dice Giovanni Villani, e che secondo Dino Compagni prese le armi personalme­nte in Mugello contro il suo grande nemico Scarpetta e l’oste nemico — e nel marzo 1303 i fuoriuscit­i furono sconfitti da Fulcieri.

Siamo insomma nel Medioevo più «classico», fatto di intrighi, rivalità, tradimenti, alleanze con potenze straniere, amici-nemici e viceversa, distruzion­i e guerre continue, e così Bonifacio VIII cadde in disgrazia, fu arrestato dopo lo «schiaffo di Anagni» e morì, Corso Donati, leader dei Neri, era diventato già inviso a mezza città per le sue violenze, e il nuovo pontefice Benedetto XI mandò un altro paciere in riva all’Arno per tentare di comporre le divisioni, il cardinale Niccolò da Prato. I Guelfi Bianchi risposero a Niccolò da Prato con una lettera scritta da Dante in cui il poeta-politico, che in quel periodo soggiornav­a ad Arezzo assieme ad altri esuli e dove fu raggiunto dal fratellast­ro Francesco, evoca «le nostre candide insegne», ma anche «le nostre rosseggian­ti spade e lance», rosse di sangue perché andati a combattere «obbligati a dare pace alla patria». Bianchi e Neri nella primavera 1304 si baciarono in bocca davanti a Santa Maria Novella per siglare la pace, ma come altre volte la riconcilia­zione fu effimera, il cardinale se ne andò infuriato ed i fuoriuscit­i presero coraggio. Forte di migliaia di fanti e centina di cavalieri, arrivati da tutta la Toscana e dalla Romagna, la spedizione militare il 20 luglio entrò in città da Porta San Gallo, si spinse fino a San Marco e addirittur­a in piazza San Giovanni. E lì accadde l’incredibil­e e l’inspiegabi­le, forse complice il fatto che la città non si sollevò accogliend­o i «liberatori» come loro speravano: Bianchi e Ghibellini — che inalberava­no le tradiziona­li bandiere con il giglio bianco in campo rosso, poi «per division fatto vermiglio» come scrive nella Divina Comedia e diventato il giglio rosso in campo bianco che è ancora simbolo della città — furono affrontati all’ombra del Battistero, sconfitti, e costretti alla fuga precipitos­a.

Quell’evento è passato alla storia come la disfatta della Lastra, perché da lì passò l’esercito prima di arrivare a Fiorenza, e portò alla sconfitta definitiva dei fuoriuscit­i Ghibellini e Guelfi Bianchi, ma anche alla separazion­e di Dante dai Bianchi. Tra i tanti misteri nella sua vita c’è quello della violenta rottura con il suo partito — non sappiamo se avvenne poco prima o poco dopo la Lastra — tanto dura che nella Commedia fa bollare all’avo Cacciaguid­a come «malvagia e scempia, matta ed empia» la compagnia che gli si rivoltata contro. Ormai anche stare in Toscana gli era diventato doloroso, per quanto desiderass­e tornare a Firenze come cittadino libero — «Popolo mio, che cosa ti ho mai fatto?»— non più povero e con la dignità ritrovata. E così l’esule lasciò la sua terra, fece da lì in avanti «parte per se stesso», e tornò a Verona, dal Gran Lombardo: uno dei Della Scala, vicari imperiali, che più tardi con Cangrande lo protessero e lo presero al proprio servizio.

Lo scontro all’ombra del Battistero portò alla sconfitta dei fuoriuscit­i Ghibellini e dei Guelfi Bianchi. E l’Alighieri si separò dal suo partito

 ??  ?? Giglio ghibellino Gli esuli Guelfi Bianchi e i Ghibellini, con la bandiera con il giglio bianco in campo rosso, entrano a Firenze dove saranno sconfitti
Giglio ghibellino Gli esuli Guelfi Bianchi e i Ghibellini, con la bandiera con il giglio bianco in campo rosso, entrano a Firenze dove saranno sconfitti
 ??  ?? L’opera Andrea del Castagno, «Dante Alighieri» (1448-1449) Gallerie degli Uffizi
L’opera Andrea del Castagno, «Dante Alighieri» (1448-1449) Gallerie degli Uffizi

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