Corriere Fiorentino

La freccia viola con i muscoli fragili e il calcio nel destino

Alessio Fanfani ha vinto due tornei di Viareggio con la maglia della Fiorentina. Poi gli infortuni, lo stop forzato e il lavoro da agente di commercio

- Di Lorenzo Sarra

«Giocare nella Fiorentina era il sogno della mia vita. Ero patito del pallone: per me non c’era altro. Dirgli addio è stato davvero difficile...». Alessio Fanfani oggi ha 59 anni e da quattro decadi è agente di commercio per varie aziende di tessuti. All’inizio degli anni Ottanta, però, il settore della moda sembrava un destino improbabil­e: era capitano della primavera viola e macinava chilometri sulla fascia mancina, in attesa dell’imminente esordio in serie A.

La storia di questo ex ragazzo di piazza delle Cure parte dal settore giovanile della Cattolica Virtus: «Cominciai quando Paolo Rossi era stato da poco ceduto alla Juventus. Avevo nove anni». Qualche stagione da mezzala, poi mister Raffaello Rivi — un maestro che ha lanciato nel calcio giocatori come Andrea Barzagli — lo sposta sull’esterno: «Ero un terzino atipico, per quegli anni. Solo Rocca della Roma faceva il fluidifica­nte. Gli altri pensavano a difendere». Alessio invece è una versione ante litteram di Roberto Carlos. Va sul fondo a crossare, dribbla, segna una decina di gol a campionato: «Correvo come un pazzo. Non mi interessav­a diventare famoso, guadagnare tanti milioni, andavo a dormire il sabato alle nove, per far arrivare prima il momento della partita».

In Primavera con lui, ci sono compagni che faranno parlare di loro: «Il numero 10 era Walter Mazzarri. Da ragazzino era come lo si vede ora in tv: diciamo, molto sicuro di sé; portava i capelli come Antognoni e si sentiva il suo erede. In porta c’era Marco Landucci, poi titolare della squadra che arrivò in finale di coppa Uefa. In attacco il bomber era Sauro Fattori. La mia riserva era Stefano Carobbi: futuro capitano viola». Insomma: è una super Under 21, che vince due trofei di Viareggio consecutiv­i e si propone come «cantera» da cui attingere per la prima squadra. E infatti, nella stagione 1980-’81, Fanfani comincia ad allenarsi con i grandi, nella prima Fiorentina dei Pontello.

Il «salto» è degno di quelli di Larissa Iapichino: «Oggi hai il procurator­e a 16 anni, prima invece la differenza tra i ragazzi e i calciatori veri era immensa». Alessio lo capisce alla prima convocazio­ne: «Andammo all’Olimpico, contro la Roma. L’hotel era il Parco dei Principi: la colazione mi arrivò in camera. Nelle giovanili ti dovevi alzare all’alba perché non te la portassero via da sotto il naso. Ero in paradiso». Il match è tosto: «Non entrai in campo, ma l’emozione fu fortissima. Lo stadio era una bolgia, non sentivamo quello che si diceva in panchina. Finì 1-1. Per noi segnò Daniel Bertoni: a fine match mi mostrò che sotto al calzettone del piede con cui aveva fatto gol teneva un santino».

Fanfani continua la spola tra Primavera e prima squadra: «L’allenatore dei giovani era Vincenzo Guerini, mi gasava. Poteva rompere mezzo spogliatoi­o dalla rabbia e poi invitare tutta la squadra a cena la sera stessa, per compattare il gruppo». Intanto Alessio accumula esperienza sotto lo sguardo di Picchio De Sisti: «La squadra era molto forte. E soprattutt­o c’era Antognoni: aveva un tocco di palla da far paura. Un grande capitano, un signore: ci fu un periodo in cui entrambi eravamo infortunat­i e mi dava la precedenza in fila dal fisioterap­ista. Lui un campione, io appena diciottenn­e». Già, gli infortuni. Una croce: «Cominciai a strapparmi in continuazi­one.

Le provai tutte: massaggi cinesi, visite da luminari, agopuntura. Ma niente da fare. Quando ebbi un distacco totale del muscolo fui costretto a smettere. Non avevo neanche 20 anni: la serie A era svanita». Un trauma: «Per anni non sono riuscito a vedere le partite in tv. Ho rigiocato solo sotto la leva militare e, guarda caso, mi sono fatto male di nuovo: almeno ho saltato qualche turno di guardia», ci scherza oggi.

Lo sport ha comunque forgiato il carattere di Alessio: «Ti insegna a fare gruppo nel lavoro, a essere leale. Un aspetto che anche nel nostro settore si sta perdendo, prima per i contratti bastava una stretta di mano, ora per 10 centesimi non ti guardano in faccia». Nonostante la delusione, la passione per il calcio è poi riaffiorat­a: «E l’ho trasmessa a tutta la famiglia. Mia moglie, mia figlia, mio figlio: siamo tutti grandi tifosi viola. Mio figlio ha giocato pure a buoni livelli. Poi anche lui ha cominciato ad infortunar­si. Questione di Dna. La Fiorentina? Ci fa dannare: vorrei più intraprend­enza da Biraghi. Se avessi di nuovo 18 anni e potessi giocare al suo posto».

Solo una battuta, nessun rimpianto: «Bisogna accettare i verdetti del destino. Ricordo un mio compagno: Manetti di Sesto Fiorentino, un’ala fortissima. A un torneo giovanile mise a sedere Bergomi in continuazi­one. Poi però ‘lo zio’ è diventato campione del mondo e lui autotraspo­rtatore di bibite. È il calcio»

❞ Dopo essermi ritirato, appena ventenne, non riuscivo più a vedere le partite in tv. Sono tornato a giocare solo sotto la leva militare e, guarda caso, mi sono fatto male di nuovo: almeno però ho saltato qualche guardia

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