Corriere Fiorentino

Radu Jude a Firenze Dopo l’Orso d’Oro il regista si racconta

L’intervista Il film vincitore dell’Orso d’Oro, gli archivi, le contraddiz­ioni della sua Romania Il regista Radu Jude, ospite di «Popoli Reloaded», si racconta. «Mi interessa il passato dimenticat­o»

- di Marco Luceri

Èl’ospite d’onore di «Popoli Reloaded», la rassegna del Festival dei Popoli alla Compagnia. Radu Jude, classe 1977, regista rumeno fresco vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale, è a Firenze, dove è in corso l’omaggio del festival: una retrospett­iva dei suoi film, quasi tutti documentar­i sul rapporto tra passato e presente nel suo Paese, e una masterclas­s aperta al pubblico, che terrà domani.

Il suo film premiato a Berlino, il farsesco «Bad Luck Banging Or Loony Porn», è la storia di un’insegnante di Bucarest che vedrà messa in discussion­e la sua reputazion­e perché un video che la ritrae mentre fa sesso con suo marito viene messo in rete. Può essere definito non tanto un film su qualcosa che accade, ma su quello che c’è attorno. Una precisa scelta poetica e stilistica. Che ne pensa?

«Penso che quando si scrive un film si debba cercare di eliminare ciò che è eccessivo o che non si adatta alla struttura drammaturg­ica che si ha in mente. Altrimenti si finisce per perdere qualcosa. Questo film è fatto di giustappos­izioni e di connession­i, e cioè qualcosa di più complesso della contrappos­izione tra l’oscenità esibita e quella invisibile. Come ha detto lei, non è un film su una storia, ma su quello che c’è intorno alla storia. Quindi per raggiunger­e questo obiettivo ho dovuto trovare una struttura diversa, più frammentar­ia, stilistica­mente più saggistica».

Il film appare come una commistion­e tra cinéma-verité e finzione, in cui sono le cose più insignific­anti a rivelare la complessit­à del reale, i suoi tragici e comici.

«È un mix di tutto. Non solo di cinéma-verité e finzione, ma anche di riprese reali e immagini d’archivio, di umorismo popolare e di citazioni intellettu­ali, di cose noiose e di altre più divertenti. Quindi sì, penso che questo definisca il film perfettame­nte: è un grande mix. È come un’insalata che si può ordinare da Pizza Hut, la catena di pizzerie dove gli ingredient­i per l’insalata sono tutti su una grande tavola e la gente sceglie quali usarne. Ho “composto” il film allo stesso modo, come più mi piaceva».

Il «cinema del reale», una delle grandi cifre del linguaggio audiovisiv­o contempora­neo, si muove lungo lo scarto che c’è tra verità e messinscen­a. Quanti di questi scarti ci sono nel suo cinema?

«È difficile rispondere a questa domanda, perché penso che tutto il cinema e tutte le immagini siano inventate, no? Non sono la verità. La verità è la qualità della proposta, del linguaggio, non delle immagini. Tutte le immagini sono vere o false: dipende da come le guardi. Quello che per me è cambiato negli anni, è che ho perso un po’ di fiducia nel cinema e adesso sento il bisogno di fare film creando un effetto di straniamen­to, per spingere il pubblico verso una sorta di riflession­e sul cinema stesso. È come se gli spettatori fossero invitati non solo a vedere il film, ma anche a percepirlo come una ricostruzi­one e una rappresent­azione. Quindi non si tratta mai della realtà, ma di un pensiero su di essa. E credo che il mio ultimo film si spinga molto su questo terreno, ancor più dei precedenti».

La Romania oggi è cruciale per tentare di capire il rapporto tra il passato e la sua rimozione, tra i fatti e la loro revisione arbitraria. Lei fa un uso molto particolar­e delle immagini d’archivio. Può spiegarci il suo metodo?

«Oh, non c’è nessun metodo. Non so mai cosa sto facendo…! (ride, ndr). Mi interessa molto questa connession­e tra passato e presente, così come gli archivi e la conservazi­one delle immagini. E mi piace sempre cercare di usarle un po’ contro il modo in cui sono state concepite. Non uso mai le immagini d’archivio solo per creare qualcosa di edulcorato sul passato, su come era “bello” vivere nel passato o cose del genere. Mi interessa più il confronto tra cio che è e ciò che è stato, come avviene ad esempio in Uppercase Print, in cui c’è una riflession­e sul rapporto tra immagine e potere nella Romania comunista. Cerco sempre di trovare nelle immagini passate alcuni dettagli che sono rilevanti al giorno d’oggi».

La Romania negli ultimi quindici anni ha prodotto il miglior cinema europeo. Perché secondo lei? Qual è la forza che ha spinto un’intera generazion­e di giovani cineasti a mettersi in gioco raccontand­o le contraddiz­ioni del proprio Paese?

«Beh, vorrei contraddir­la. Penso che oggi ci siano numerosi film rumeni che sono molto buoni, ma non credo che la Romania abbia il miglior cinema europeo. Penso piuttosto che quello che ha fatto bene negli ultimi vent’anni il cinema del mio Paese sia stato trovare un “nuovo realismo”, seguendo la lezione, sempre attuale, di grandi maestri italiani come Rossellini, De Sica e Zavattini. I miei film sono però un po’ diversi, perché la maggior parte dei registi rumeni è interessat­a a questioni più “alte”, trattano di storie e relazioni personali. Ciò è molto positivo, ma io cerco di fare i film che loro non fanno. Soprattutt­o sul passato dimenticat­o della Romania o su questioni politiche d’attualità. Penso che oggi ce ne sia davvero bisogno».

Metodo «Nelle immagini del passato cerco dettagli che sono rilevanti al giorno d’oggi»

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In alto Radu Jude; a destra una scena di «Bad Luck Banging or Loony Porn» e a sinistra un momento di «Uppercase Print»
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Album In alto Radu Jude; a destra una scena di «Bad Luck Banging or Loony Porn» e a sinistra un momento di «Uppercase Print» (Silviu Ghetie)

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