Indro da vicino La stanza di Montanelli con una «Lettera 32» scassatissima
L’anniversario La vita in redazione, l’amore per il Risorgimento, il no alla nomina a senatore a vita A vent’anni dalla scomparsa del giornalista e scrittore il ricordo di chi lo ha conosciuto molto bene
Indro di qua, Indro di là. A sentir loro, si direbbe che migliaia di persone abbiano avuto grande dimestichezza con il numero uno del giornalismo italiano. Può darsi, per carità. Ma mi permetto di dubitarne. Anche perché Montanelli era sì un uomo alla mano ma, tutto sommato, un solitario. Se davvero avesse amabilmente conversato con un’infinità di suoi compatrioti, non avrebbe potuto concentrarsi su quello che aveva di più caro: sane letture, le opere di carattere storico — e non solo — che hanno lasciato il segno, gli articoli di fondo e i suoi micidiali Controcorrente. Intrisi di un’ironia — mi disse una volta — che non tutti i lettori percepivano. Femministe in primis.
Posso dire di averlo conosciuto bene. A tal punto che nella redazione romana del Giornale a Piazza di Pietra — a pochi passi da Piazza Colonna, dove ha sede Il Tempo, allora diretto da Gianni Letta, che mi vide collaboratore per ben 14 anni — nella stanza di Montanelli ho battuto i miei primi articoli per il Giornale sulla sua macchina per scrivere. Che non era la mitica Olivetti Lettera 22 milanese ma una scassatissima Lettera 32.
Montanelli mi vuole conoscere nell’aprile 1987. Amintore Fanfani, il montanelliano Rieccolo nazionale, era appena caduto a Montecitorio senza fare una piega, consapevole che alle Quaresime seguono le Resurrezioni. Le nostre istituzioni sono quello che sono e i costituzionalisti non rischiano di finire ai giardinetti. Così, come alla leva militare, Montanelli mi dichiara abile e arruolato. Ma non si è maledetti toscani per nulla. Con uno schiaffo: «Voi costituzionalisti siete una massa d’imbroglioni». Proprio lui, laureato in Giurisprudenza e al Cesare Alfieri. E una carezza: «Ma tu almeno ti fai capire». Il massimo dei complimenti per un grande scrittore e giornalista come lui. E giù miei articoli di fondo a sfare.
Il giorno dopo mi mette in mano un suo pezzo su «I silenzi di Mosè», in programma per l’indomani: una critica al suo amico Spadolini perché al congresso repubblicano non aveva accennato alle riforme costituzionali. Con un filo di voce mi permetto di osservare che il segretario fiorentino era stato l’autore del «decalogo istituzionale». Un’aggiunta che mandò in brodo di giuggiole Spadolini, grato al direttore soprattutto per essersi ricordato del famoso decalogo. Vado a Milano per firmare il contratto e mancò poco che svenissi. Mi affaccio alla porta del suo studio, sempre aperta, e a bruciapelo mi fa: «Proprio te, mi devi fare un articolo sui saccopelisti a Venezia». Voleva vedere come me la cavassi. E fortunatamente superai l’esame.
Tanti i ricordi, tanti gli aneddoti. Un giorno mi convoca a Milano e a colazione con pochi intimi ci informa che andava «smembrato» Franco Cangini, che aveva appena lasciato il Giornale: «Allora tu, Armaroli, ti occupi di politica costituzionale; tu, Federico Orlando, di politica istituzionale (e vai a capire la differenza…); e tu, Scarpino, di politica interna». Tre moschettieri per sostituirne uno solo. Una volta incontro Giovanni Sartori al Giornale a cordiale colloquio con il direttore, che lo conosceva da una vita. Poco dopo Montanelli mi tesse le lodi di Sartori con un codicillo: «Sì, ma che carattere!». Ovviamente, tornato io a Firenze, la scena si ripete: a parti invertite. Mentre dalla casa di Sartori che guarda Ponte Vecchio telefonavo al direttore per comunicargli di aver appena avuto una foto di Vanni per una mia intervista, la mamma, la signora Titina, donna di gran fascino anche in tarda età, mi toglie il microfono di mano ed esclama: «Indrino, Indrino mio!». E a Nilde Iotti, stupita che sulla scrivania del direttore ci fosse una statuetta di Stalin, un Montanelli beffardo la mette così: «Non ho mai conosciuto nessuno che abbia ammazzato tanti comunisti come Stalin». Era l’uomo più disponibile del mondo e si assentava di malavoglia. Perché temeva che senza di lui il Giornale andasse peggio. Ma temeva ancora di più, un po’ nevrotico com’era, che senza di lui andasse meglio.
A proposito di assenze, Montanelli fu costretto per qualche tempo ad abbandonare la sua creatura di carta per ricoverarsi a causa delle sue ricorrenti depressioni nella clinica pisana del professor Cassano, un luminare. E il suo pensiero corse subito ai diletti Controcorrente. Che fare? Dette così incarico alla sua ciurma di sbrigarsela da sola. Anche il sottoscritto dette per l’occasione il suo modesto contributo.
E il Controcorrente più riuscito fu del seguente tenore: «Non si capisce perché Achille Occhetto avverta il prepotente bisogno di varare un governo ombra per contrastare un’ombra di governo». L’ombra di governo, manco a dirlo, era uno dei tanti ministeri Andreotti. Che però sopravvisse al governo ombra allestito dal personaggio che liquidò alla Bolognina il Pci. Il bello è che a Montecitorio il liberale Alfredo Biondi sospende il suo dire per leggere il mio Controcorrente. Con, testuale, questa postilla: «Ecco l’autentico Montanelli!».
All’occorrenza, la sua lingua era affilata come la sua penna. A un convegno milanese di storici, mentre svolgeva il suo intervento un cattedratico tra i maggiori, Montanelli mi sussurra: «Lo senti? Parla come scrive». E non era un complimento.
Innamorato del Risorgimento, che — diceva — non sarà stato un granché ma ha fatto gl’italiani, Montanelli con enorme rammarico dubitava che il Belpaese avesse un futuro. Soleva dire: gl’inglesi sono inglesi, i francesi francesi, i tedeschi tedeschi, mentre noi siamo un branco di apolidi, senza radici, senza Patria, senza un passato e con un incerto futuro. Contemporanei, come sosteneva Ugo Ojetti, e nulla più. In effetti, il tempo, che è galantuomo, gli ha dato sempre più ragione. In questi giorni, è vero, è sventolato il Tricolore. Ma è un Tricolore che rappresenta un omaggio all’Italia pallonara. L’unica che è considerata degna di lode.
In una sua «stanza» pubblicata sul Corriere della Sera dell’1 febbraio 2001, a una mia lettera nella quale prendevo atto con un certo stupore che il ministro della Pubblica istruzione Tullio De Mauro invitava a studiare l’arabo proprio quando l’italiano per molti è arabo, Montanelli mi rispondeva così: «Dopo avere per alcuni anni predicato che la Scuola (non riesco, io figlio di preside, a farne il nome senza la maiuscola) dovrebb’essere, per l’Italia, il problema numero 1, ancora più urgente di quello dell’ordine pubblico, ho smesso di occuparmene per non farmi il sangue cattivo, cioè più cattivo del solito». Cossiga voleva nominarlo senatore a vita. Ma rinunciò perché volle rimanere fino in fondo soltanto un giornalista.
❞ Carattere Era un uomo alla mano, ma solitario. Il più disponibile del mondo, con chi gli andava a genio