Solitudini urbane
Oltre il Rinascimento lo star-system che ha stravolto le città
La solitudine di questi nostri giorni è accidentale, legata a una circostanza planetaria, che, auguriamoci, si concluderà presto. Ma c’è una solitudine ben più organica che consegue alla devianza del pensiero urbano generato dallo strapotere della finanza nell’intero pianeta. Qui azzardiamo qualche prima riflessione sul processo di degrado che sta trasformando il nostro modo di vivere; partendo proprio dalla stagione in cui Firenze fu invidiato modello.
Ai primi del ‘400, il cancelliere umanista Leonardo Bruni scriveva la Laudatio Florentinae Urbis: il più bel panegirico di Firenze all’aprirsi del Rinascimento. Ma non solo: quell’opera resta uno dei più efficaci documenti sulla «qualità urbana» di una città realizzata. Città conclusa dentro le sue mura arnolfiane, considerata urbs perfecta, per «excellentia» e «eloquencia di huomini». Insomma, per un’armonia che non conosceva solitudine. Qualcosa che, pur nelle contraddizioni e nelle tensioni politiche, garantiva quella vita di relazione rimasta per secoli alla base di ogni concezione urbanistica fino a tutto il ‘900.
La città e l’urbanesimo più in generale costituivano, di fatto, il vero antidoto alla solitudine: tutta la ricostruzione europea del dopoguerra (e le stesse new-towns inglesi), ha alla base la facilitazione della «vita di relazione» per evitare la solitudine. Poi, le cose cambiarono: il primo trauma fu costituito da Brasilia, capitale di nuova fondazione voluta dal presidente Juscelino Kubitschek e progettata da Lucio Costa e Oscar Niemeyer, costruita fra il 1956 e il ‘60. É stata, per molti anni, una città senz’anima. Impossibile a percorrerla a piedi, ove la vita, dove c’era, si svolgeva solo e soltanto dentro i grossi edifici dove si consumavano intere giornate con aria condizionata. Poi, a sera, le migliaia di burocrati riprendevano i pullman che li riportavano a cinquanta, cento chilometri ai loro piccoli paesi di residenza: insomma, la «capitale della solitudine urbana».
Adesso quella «solitudine urbana» ha attecchito altrove, per il mondo. A Dubai come a Shanghai o Kuala Lumpur, si propongono nuove realtà antropologiche, indistinte, ove tutto si svolge entro rigidi involucri verticali, spesso caratterizzati da inutili contorsionismi architettonici.
Così, una nuova solitudine si affaccia alla seconda metà del Duemila. Qualcosa che si prospetta come l’esatto contrario di ciò che caratterizzava l’urbanistica e il senso stesso della città, così come è stato percepito per secoli. Sembra quasi che si sia già perso il senso dell’urbs, cioè della città nel suo significato spaziale, sacro e metaforico. Ed anche l’urbanitas, quel modo di comportarsi civile e cortese nei normali rapporti con le altre persone.
Purtroppo, le nuove città, o meglio i nuovi agglomerati urbani degli ultimi decenni, hanno immagini di ostentazione, di superfluo, di fantastico, di trionfalistico, ma anche di disumano, dove ogni residuo brandello di vita di relazione è relegato in volumi vetrati automaticamente climatizzati, in dispregio ad ogni più cauto principio di rispetto energetico.
C’era voluto mezzo secolo di impegno per superare la dicotomia fra École des Beaux-Art ed École Polytechnique e mettere a punto una nuova «scuola di formazione» capace di modellare una più tardi, aveva avuto formalizzazione in Francia, a Parigi nel 1803; così come l’École Polytechnique, anch’essa fondata in Francia nel 1794.
Il consumo dell’architettura moderna, il post-modernismo, la globalizzazione, il processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale, hanno costituito una progressiva miscela distruttiva per l’architettura. I grandi investimenti di capitale hanno cercato nuovi status-symbol, aprendo la stagione degli assetti urbani e della sky-line figura organica, culturalmente e tecnicamente adeguata dell’architetto. Ci si lasciava alle spalle un insegnamento accademico che aveva visto la sua condizione sorgiva con l’Accademia delle Arti del Disegno, fondata da Cosimo I de’ Medici con Giorgio Vasari (che ebbe Michelangelo come Padre e Maestro), trasferita poi nell’Accademia di Belle Arti. L’École, assai delle città. Mostri sempre più alti, sempre più contorti, sempre più stupidi hanno deturpato città bellissime come Londra, Barcellona, Baku in Azerbaijan, vere e proprie «colonie esibizionistiche» quali Hong Kong e Dubai. Torna utile ricordare uno degli ultimi articoli di Vittorio Gregotti secondo cui «le star hanno trasformato il progetto in prodotto» , riconducendolo ad un servizio di mera «progettazione della sola immagine come televisibilità mercantile dei poteri e del mercato».
Una ricognizione cronologica (e geografica) sull’ultima generazione dei grattacieli è sufficiente a dar conto dell’aberrazione urbana a cui si sono aperte acriticamente le porte, consegnando alla grande finanza internazionale il governo delle città.
Non c’è dubbio che la municipalità di Londra abbia le sue colpe, né è un caso che la prima grande alterazione del carattere della città si debba al «cetriolo» di Norman Foster, nella city: siamo ancora negli anni Novanta e questo strappo sarà l’innesco di comportamenti analoghi in Europa. A Barcellona ecco apparire la Torre Agbar di Jean Nouvel, giustificata da una critica non disinteressata, con le torri gaudiane della Sagrada Familia. Più o meno negli stessi anni (1999-2005), il movimento «contorsionista» trova il suo modello firmato nella Turning Torso di Malmö, opera di Calatrava. Qui la contorsione è totale, nello sviluppo dei suoi 190 m. di altezza e nei suoi 54 piani, monumento all’inutile esibizionismo.
Così, i più recenti esiti sono il progetto del Mercury City Tower di Mosca, il contorto Guangzhou International di Canton in Cina, la Cayan Tower di Dubai (360 m. di altezza, 75 piani e torsione a 90°) fino a The Tower, sempre di Calatrava, il grattacielo più alto del mondo per l’Expo di Dubai (2020).
C’è una riflessione conclusiva? Forse sì: che questa babele che ha distrutto ogni linguaggio architettonico e ogni riferimento alla cultura preesistente degli spazi umani («città»), abbia una rapida parabola, a favore di un’architettura che non si venda più al mercato delle insopportabili crescenti disuguaglianze di questa stagione.
❞ Gli agglomerati urbani degli ultimi decenni hanno immagini di superfluo, ma anche di disumano, dove ogni brandello di relazione è relegato in volumi vetrati automaticamente climatizzati