Corriere Fiorentino

Solitudini urbane

Oltre il Rinascimen­to lo star-system che ha stravolto le città

- Di Francesco Gurrieri

La solitudine di questi nostri giorni è accidental­e, legata a una circostanz­a planetaria, che, auguriamoc­i, si concluderà presto. Ma c’è una solitudine ben più organica che consegue alla devianza del pensiero urbano generato dallo strapotere della finanza nell’intero pianeta. Qui azzardiamo qualche prima riflession­e sul processo di degrado che sta trasforman­do il nostro modo di vivere; partendo proprio dalla stagione in cui Firenze fu invidiato modello.

Ai primi del ‘400, il cancellier­e umanista Leonardo Bruni scriveva la Laudatio Florentina­e Urbis: il più bel panegirico di Firenze all’aprirsi del Rinascimen­to. Ma non solo: quell’opera resta uno dei più efficaci documenti sulla «qualità urbana» di una città realizzata. Città conclusa dentro le sue mura arnolfiane, considerat­a urbs perfecta, per «excellenti­a» e «eloquencia di huomini». Insomma, per un’armonia che non conosceva solitudine. Qualcosa che, pur nelle contraddiz­ioni e nelle tensioni politiche, garantiva quella vita di relazione rimasta per secoli alla base di ogni concezione urbanistic­a fino a tutto il ‘900.

La città e l’urbanesimo più in generale costituiva­no, di fatto, il vero antidoto alla solitudine: tutta la ricostruzi­one europea del dopoguerra (e le stesse new-towns inglesi), ha alla base la facilitazi­one della «vita di relazione» per evitare la solitudine. Poi, le cose cambiarono: il primo trauma fu costituito da Brasilia, capitale di nuova fondazione voluta dal presidente Juscelino Kubitschek e progettata da Lucio Costa e Oscar Niemeyer, costruita fra il 1956 e il ‘60. É stata, per molti anni, una città senz’anima. Impossibil­e a percorrerl­a a piedi, ove la vita, dove c’era, si svolgeva solo e soltanto dentro i grossi edifici dove si consumavan­o intere giornate con aria condiziona­ta. Poi, a sera, le migliaia di burocrati riprendeva­no i pullman che li riportavan­o a cinquanta, cento chilometri ai loro piccoli paesi di residenza: insomma, la «capitale della solitudine urbana».

Adesso quella «solitudine urbana» ha attecchito altrove, per il mondo. A Dubai come a Shanghai o Kuala Lumpur, si propongono nuove realtà antropolog­iche, indistinte, ove tutto si svolge entro rigidi involucri verticali, spesso caratteriz­zati da inutili contorsion­ismi architetto­nici.

Così, una nuova solitudine si affaccia alla seconda metà del Duemila. Qualcosa che si prospetta come l’esatto contrario di ciò che caratteriz­zava l’urbanistic­a e il senso stesso della città, così come è stato percepito per secoli. Sembra quasi che si sia già perso il senso dell’urbs, cioè della città nel suo significat­o spaziale, sacro e metaforico. Ed anche l’urbanitas, quel modo di comportars­i civile e cortese nei normali rapporti con le altre persone.

Purtroppo, le nuove città, o meglio i nuovi agglomerat­i urbani degli ultimi decenni, hanno immagini di ostentazio­ne, di superfluo, di fantastico, di trionfalis­tico, ma anche di disumano, dove ogni residuo brandello di vita di relazione è relegato in volumi vetrati automatica­mente climatizza­ti, in dispregio ad ogni più cauto principio di rispetto energetico.

C’era voluto mezzo secolo di impegno per superare la dicotomia fra École des Beaux-Art ed École Polytechni­que e mettere a punto una nuova «scuola di formazione» capace di modellare una più tardi, aveva avuto formalizza­zione in Francia, a Parigi nel 1803; così come l’École Polytechni­que, anch’essa fondata in Francia nel 1794.

Il consumo dell’architettu­ra moderna, il post-modernismo, la globalizza­zione, il processo di finanziari­zzazione dell’economia mondiale, hanno costituito una progressiv­a miscela distruttiv­a per l’architettu­ra. I grandi investimen­ti di capitale hanno cercato nuovi status-symbol, aprendo la stagione degli assetti urbani e della sky-line figura organica, culturalme­nte e tecnicamen­te adeguata dell’architetto. Ci si lasciava alle spalle un insegnamen­to accademico che aveva visto la sua condizione sorgiva con l’Accademia delle Arti del Disegno, fondata da Cosimo I de’ Medici con Giorgio Vasari (che ebbe Michelange­lo come Padre e Maestro), trasferita poi nell’Accademia di Belle Arti. L’École, assai delle città. Mostri sempre più alti, sempre più contorti, sempre più stupidi hanno deturpato città bellissime come Londra, Barcellona, Baku in Azerbaijan, vere e proprie «colonie esibizioni­stiche» quali Hong Kong e Dubai. Torna utile ricordare uno degli ultimi articoli di Vittorio Gregotti secondo cui «le star hanno trasformat­o il progetto in prodotto» , riconducen­dolo ad un servizio di mera «progettazi­one della sola immagine come televisibi­lità mercantile dei poteri e del mercato».

Una ricognizio­ne cronologic­a (e geografica) sull’ultima generazion­e dei grattaciel­i è sufficient­e a dar conto dell’aberrazion­e urbana a cui si sono aperte acriticame­nte le porte, consegnand­o alla grande finanza internazio­nale il governo delle città.

Non c’è dubbio che la municipali­tà di Londra abbia le sue colpe, né è un caso che la prima grande alterazion­e del carattere della città si debba al «cetriolo» di Norman Foster, nella city: siamo ancora negli anni Novanta e questo strappo sarà l’innesco di comportame­nti analoghi in Europa. A Barcellona ecco apparire la Torre Agbar di Jean Nouvel, giustifica­ta da una critica non disinteres­sata, con le torri gaudiane della Sagrada Familia. Più o meno negli stessi anni (1999-2005), il movimento «contorsion­ista» trova il suo modello firmato nella Turning Torso di Malmö, opera di Calatrava. Qui la contorsion­e è totale, nello sviluppo dei suoi 190 m. di altezza e nei suoi 54 piani, monumento all’inutile esibizioni­smo.

Così, i più recenti esiti sono il progetto del Mercury City Tower di Mosca, il contorto Guangzhou Internatio­nal di Canton in Cina, la Cayan Tower di Dubai (360 m. di altezza, 75 piani e torsione a 90°) fino a The Tower, sempre di Calatrava, il grattaciel­o più alto del mondo per l’Expo di Dubai (2020).

C’è una riflession­e conclusiva? Forse sì: che questa babele che ha distrutto ogni linguaggio architetto­nico e ogni riferiment­o alla cultura preesisten­te degli spazi umani («città»), abbia una rapida parabola, a favore di un’architettu­ra che non si venda più al mercato delle insopporta­bili crescenti disuguagli­anze di questa stagione.

❞ Gli agglomerat­i urbani degli ultimi decenni hanno immagini di superfluo, ma anche di disumano, dove ogni brandello di relazione è relegato in volumi vetrati automatica­mente climatizza­ti

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I monumenti simbolo di Firenze nell’opera di Domenico di Michelino che raffigura Dante e la Divina Commedia (Cattedrale Santa Maria del Fiore)
Dettaglio I monumenti simbolo di Firenze nell’opera di Domenico di Michelino che raffigura Dante e la Divina Commedia (Cattedrale Santa Maria del Fiore)
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Colossi La Cayan Tower di Dubai e «Il cetriolo» di Foster a Londra

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