LA CHIESA E LA RISPOSTA ALLA FERITA
LA CHIESA E LA RISPOSTA ALLA FERITA
La vicenda che ha travolto la parrocchia di Castellina, nella diocesi di Prato, e il suo parroco ha sollevato, accanto al clamore, una serie di reazioni sofferte e anche dure. Reazioni che appaiono ancor più comprensibili e giustificate alla luce degli ultimi drammatici sviluppi dell’indagine. Si è sottolineato come quanto accaduto testimoni un problema profondo nei percorsi che conducono una persona al presbiterato. Si è chiesto una profonda riforma dei criteri e delle modalità con cui si concede ad un candidato il sacramento dell’ordine. Si tratta certamente di una riflessione opportuna, che sottolinea l’esigenza di guardare più alla qualità intellettuale, pastorale, spirituale e umana dei candidati al ministero dell’ordine piuttosto che all’esigenza di ingrossare le fila del clero. E tuttavia la vicenda di don Spagnesi, anche alla luce degli ultimi sviluppi e delle accuse di lesioni gravissime che si sommano alle altre, solleva questioni forse ancora più profonde, perché rivela fragilità che diventano ferite e lo fa su un duplice piano. Vi è la debolezza di un essere umano, nel quale la vocazione non ha trovato sponda alcuna in un discernimento personale e comunitario e che è stata travolta dalla spirale in cui si lasciato irretire. Accanto a questo vi è lo smarrimento di una comunità ecclesiale che si trova posta di fronte a dubbi e incertezze. Alla radice di queste lacerazioni non c’è solo il venir meno degli antichi meccanismi del seminario, nato con il Concilio di Trento per selezionare il clero e definirlo nello status giuridico, oltre che pastorale, di un ordine.
Emerge, più radicalmente, la realtà di una chiesa che vive un tempo di transito, con strutture e forme ancora appartenenti a quello che gli storici chiamano «paradigma tridentino» — ossia una divisione in «ordini» che affida al clero un primato pastorale, magisteriale e giuridico — e con una teologia che nei suoi documenti è quella del Concilio Vaticano II e che fa del «Popolo di Dio» il vero e autentico soggetto che esprime la fede del Vangelo. Se riletta alla luce di questa discrasia la vicenda pratese lascia emergere una autentica possibilità di crescita per i cristiani. Essa, infatti, chiama ad un atto di responsabilità non il clero, ma la chiesa nella sua interezza, perché la qualità spirituale di un cammino di vocazione religiosa, sia esso quello del presbitero o di una coppia di sposi o di un laico, in una logica cristiana non è riducibile a fatto privato e di sola coscienza. Tocca la comunità e secondo un antico adagio della chiesa: «ciò che tocca tutti da tutti deve essere discusso ed approvato» («quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet»). È solo in questa prospettiva che è possibile cogliere tutta la portata di una crisi del presbiterato che analisi attente, come quella di Marco Marzano («La casta dei casti», Bompiani 2021) hanno messo in evidenza e dare una risposta che sappia restituire il ministero dell’ordine al suo essere non l’esito della selezione di una classe dirigente, ma il frutto della vita della comunità cristiana che nella storia esprime la fede da cui è abitata. I giorni di sofferenza che affronta la chiesa pratese non hanno dunque solo un risvolto negativo. Nel Vangelo si legge che Gesù ammonisce: «È inevitabile che avvengano gli scandali» (Mt 18, 6). E tuttavia, da questa constatazione nasce l’urgenza di misurarsi coi limiti di ciò che nella chiesa vi è di umano: quelle forme il cui valore è sempre subordinato al Vangelo e che cambiano per continuare a parlare agli esseri umani di ogni tempo, luogo e cultura. Si dischiude così per la chiesa che è in Prato, per il suo popolo e il suo pastore, l’opportunità di essere luogo in cui tutto questo matura, a vantaggio anche di quella chiesa italiana che si avvia verso il suo primo sinodo nazionale e a vantaggio anche del paese. Perché una chiesa fedele al senso più profondo e umano dell’essere cristiani getta anche nel tessuto sociale e civile della comunità in cui vive semi di umanità.