Corriere Fiorentino

Tutti i versi di una terapia

Il libro In «Litania nervosa» Marco Simonelli traduce in poesia la storia della sua depression­e «L’idea di scriverlo nasce durante un mio ricovero in psichiatri­a a Careggi: una parte è ambientata lì»

- Di Vanni Santoni

Marco Simonelli, poeta fiorentino classe 1979, torna in libreria dopo sei anni di assenza, con un libro di grande maturità formale e ferocia lirica, Litania nervosa, pubblicato dalla livornese Valigie Rosse diretta da Valerio Nardoni, affermatas­i in questi anni come realtà di primo piano nell’editoria poetica italiana.

Simonelli, come si colloca Litania nervosa rispetto alla sua produzione?

«È un nuovo inizio. Col mio libro precedente, ho concluso un percorso di analisi della realtà che mi circondava; ora passo alla realtà interiore: Litania nervosa parla di depression­e e disturbi mentali. L’idea di scriverlo nasce durante un mio ricovero a Careggi: lì incontro fortuitame­nte una nota scrittrice fiorentina che mi dice, scherzando: “Certo che per un poeta maledetto come te un ricovero in psichiatri­a è un evento da mettere nel curriculum!” Avrei potuto offendermi ma sul momento non ho trovato modo di replicare. La seconda parte di Litania nervosa è ambientata proprio in quel day hospital. Quindi alla fine l’esperienza si è condensata in un libro. Aveva ragione lei».

Il libro ha avuto un effetto catartico, come in genere ci si aspetta dalla letteratur­a, oppure sono fole romantiche di noi lettori?

«Con la poesia è facile cadere negli stereotipi romantici. Scrivere di depression­e per uscirne? Al massimo per addomestic­arla, giacché è un male con cui si può solo imparare a convivere. Il mio umore rimane pessimo, esattament­e come prima di scrivere! C’è semmai una soddisfazi­one personale e difficilme­nte comunicabi­le rispetto al lavoro compiuto: il sapere di non aver buttato il proprio tempo e la speranza che quei versi parlino a qualcuno, non si sa bene a chi. Il lettore, per un poeta, è un’entità fantasmati­ca collocata in un futuro remoto».

Ha sempre avuto un uso altamente consapevol­e di metrica e suoni, ma qua si ravvisa una particolar­e concentraz­ione di allitteraz­ioni e un tono più contratto e cattivo

rispetto al solito...

«Credo che l’uso della metrica ti obblighi in un certo senso a comprimere il tuo discorso: lo spazio è limitato e devi riuscire a condensare un pensiero in un numero determinat­o di sillabe. Ecco allora che l’allitteraz­ione diventa una necessità e serve, qui, a evocare il pensiero ossessivo. Certe chiuse perentorie sono, in realtà, i punti in cui ho cercato di essere più preciso possibile nel riportare chirurgica­mente certi stati d’animo e percezioni negative. Paradossal­mente sono le parti in cui lasciavo agire la lingua senza esercitare un controllo serrato. Io ho scritto un libro, certo, ma per molti passaggi ne sono più lo scopritore che l’autore. Credo che la poesia sia una scoperta del proprio pensiero attraverso l’esercizio della forma: quando sei obbligato a usare regole che ti sei imposto, il pensiero si adatta, scava, fluisce, si espande in modi che non avresti mai sospettato.

Si parla da anni di scena letteraria fiorentina. Ma quando ancora non esisteva, Firenze aveva già una scena poetica: c’era lei, Francesca Matteoni, e altri che ora si dedicano alla prosa come Tommaso Lisa o Alessandro Raveggi...

«È vero, ma quindici anni fa anche la struttura stessa della città era diversa: era più facile ritrovarsi in centro a leggere e commentare testi. Adesso è più complesso, e mi spiace soprattutt­o per i giovani che avrebbero bisogno non dico di maestri ma di compagni di strada. Noi, alla fine degli anni ‘90, ci ritrovavam­o la sere nelle aule di una scuola privata in San Lorenzo, fogli alla mano, seggiole in cerchio e una voglia matta di ascoltare poesia e parlarne. Certe amicizie sono sopravviss­ute alla prova del tempo e non a caso oggi le prime persone a cui faccio leggere un manoscritt­o provengono tutte da quei raduni».

Si vede un certo disordine anche nell’editoria poetica italiana: al di là della nuova collana curata da Diego Bertelli e Raoul Bruni per Le Lettere, che sta facendo faville ma è appena nata, l’unico punto fermo sembrano i Quaderni curati da Franco Buffoni in cui, non a caso, figuraste a suo tempo sia tu che Matteoni, che oggi occupate i primi due posti nelle ultime Classifich­e di qualità nazionali di poesia.

«I Quaderni sono ancora oggi la sede più prestigios­a per un giovane che voglia pubblicare. Mi ricordo notti intere passate con Matteoni a leggerli: succedeva spesso che lei perdesse l’ultimo treno per Pistoia e io la invitavo da me dove facevamo mattina sulle poesie. Il vero problema è, a mio avviso, che stanno diminuendo gli spazi in cui fare critica, su giornali e riviste. Ciò è anche dovuto alla decimazion­e delle riviste cartacee specificam­ente dedicate alla poesia, e tra quelle rimaste alcune hanno un’impostazio­ne totalmente accademica, altre si dedicano solamente a un tipo specifico di poesia… Il mensile Poesia ospitava un’ampia selezione di recensioni ma ha cambiato editore e sono sparite. Al di là degli editori e della critica, la poesia italiana resta un terreno molto fertile. Per fare un po’ di nomi: Nadia Agustoni, Italo Testa, Alessandra Carnaroli, Jacopo Ramonda, Vito M. Bonito, Alessandro Broggi sono contempora­nei di cui ammiro la scrittura e su cui sono pronto a scommetter­e. Un poeta da riscoprire è invece il parco e sublime Michele Ranchetti, mentre un nome da rivalutare è Ottiero Ottieri, che sulla malattia mentale ha scritto dei poemetti ironici e strazianti».

Sguardo al lettore «Il mio umore rimane pessimo. C’è semmai, la speranza che quanto scritto parli a qualcuno»

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Protagonis­ta Marco Simonelli, classe 1979 è un poeta fiorentino

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