Pratolino di eroi e principi
I nostri tesori Lo splendore con il granduca Francesco I, il degrado, la rinascita con Paolo Demidoff Alla riscoperta delle storie del parco mediceo (e del suo Gigante) candidato ai finanziamenti del Pnrr
Non sono molti i monumenti, anche in un’area densa di storia come Firenze e il suo nobile contado, capaci di evocare memorie larghe quasi mezzo millennio. Il Parco mediceo di Pratolino è uno di essi. Dagli sfarzi del granducato mediceo alle economie un po’ grette della «Toscanina» lorenese, dalla prodigalità di un principe russo alle speculazioni edilizie del dopoguerra, la sua memoria s’interseca con la storia dell’arte, dell’architettura e del costume dal Cinquecento ai nostri giorni.
Il parco è quanto resta del complesso della Villa Medicea di Pratolino, realizzata sulla grande tenuta acquistata nel 1568 dal granduca Francesco I. Siamo a metà del XVI secolo e il Rinascimento trascolora nel manierismo anche nell’architettura dei giardini. Quando Bernardo Buontalenti inizia la progettazione è stato inaugurato da pochi anni il Sacro Bosco di Bomarzo, detto anche Parco dei Mostri. Come Bomarzo, il parco di Pratolino è una foresta di simboli, primo fra tutti la gigantesca statua del Gigante dell’Appennino, undici metri in pietra e intonaco, capolavoro del Giambologna; ma a colpire i visitatori è la straordinaria ricchezza di giochi idraulici. Un viaggiatore d’eccezione come Michel de Montaigne ne rimase affascinato e lo descrisse come «un impressionante carosello di sculture di personaggi, animali, dèi, ed eroi epici; grotte, fontane, giochi e scherzi d’acqua; teatrini di automi semoventi azionati ad acqua, organi idraulici che riproducevano musiche soavi, macchine automatiche che riproducevano il canto degli uccelli».
Parco e villa furono forse un sontuoso regalo fatto dal granduca alla sua prima amante e poi seconda moglie, la chiacchierata nobildonna veneziana
Bianca Cappello, in precedenza alloggiata in un elegante palazzo di via Maggio. Ma il matrimonio fu di breve durata perché i coniugi morirono a poche ore di distanza, avvelenati, secondo la voce popolare, confermata da recenti ricerche tossicologiche sul fegato delle vittime. La tragedia (o il delitto) non andò in scena a Pratolino, ma nella villa di Poggio a Caiano; però il complesso risentì ugualmente di un lungo periodo di rimozione e cominciò un lento degrado, in parte interrotto a fine ‘600 dall’interessamenvenuto to del mancato erede al trono Ferdinando Maria de’ Medici.
Con l’avvento dei Lorena, che, imbevuti di utilitarismo illuminista, preferivano spendere in bonifiche piuttosto che nella conservazione di edifici di rappresentanza, la struttura fu stravolta. La tenuta divenne una riserva di caccia, il giardino manierista un parco all’inglese, il corpo della villa fu abbandonato al degrado e, ormai pericolante, nel 1820, estremo oltraggio, venne fatto saltare in aria. A salvare quanto rimaneva del complesso fu un soccorso dall’Est, legato a una tragedia familiare. Nell’Ottocento trascorrevano lunghi soggiorni a Firenze i membri di una delle più ricche famiglie europee, i Demidoff, una dinastia di fabbricanti di armi che si distinse anche per lo spirito filantropico. Uno di loro, Nicola, era stato ambasciatore dello zar presso il granducato e aveva avviato a San Donato, in un terreno malarico, la costruzione di una splendida villa con annesso giardino all’inglese, ultimata dal figlio Anatolio. Un elegante gruppo scultoreo dello scultore Lorenzo Bartolini, protetto, caso più unico che raro, da una sorta di baldacchino, lo ricorda nella piazza che ne ha preso il nome.
Suo nipote Paolo, principe di San Donato, che aveva ereditato il complesso e fu per alcuni anni sindaco di Kiev, non avrebbe avuto bisogno dunque di un’altra dimora. Ma il dolore per la precoce scomparsa della prima moglie, morta a 24 anni, gli aveva reso insopportabile la vita dove aveva condiviso tanti giorni felici con lei. Vendette separatamente la villa e il parco di San Donato, che avrebbe ospitato fra l’altro il primo campo da golf italiano e le prime partite dell’aristocratico Florence Football Club, si risposò e comprò il complesso di Pratolino, restaurando gli edifici superstiti e adibendo a residenza le restaurate «paggerie»: moglie nuova, villa nuova.
Pratolino tornò a vivere, fino alla morte dell’ultima discendente di Paolo, Maria, che aveva sposato un principe jugoslavo. Il marito tentò di realizzare nel parco una lottizzazione, com’era avvenuto a San Donato, dove il complesso era stato abbandonato al degrado e il parco era divenuto un’area fabbricabile. A salvare Pratolino in questo caso fu l’intervento pubblico. Come aveva fatto due anni prima il Comune di Pietrasanta per la Versiliana, la Provincia acquisì edifici e parco nel 1982 destinandoli all’uso pubblico, con ingenti oneri di manutenzione e messa in sicurezza (e purtroppo, vent’anni fa, proprio il Gigante dell’Appennino fu teatro di un tragico incidente durante una gita scolastica). Ora la Città Metropolitana ha richiesto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza un contributo di due milioni di euro per il restauro del parco e dei giochi d’acqua. Michel de Montaigne sarebbe d’accordo; speriamo che pure la burocrazia sia dello stesso avviso.