Corriere Fiorentino

Pratolino di eroi e principi

I nostri tesori Lo splendore con il granduca Francesco I, il degrado, la rinascita con Paolo Demidoff Alla riscoperta delle storie del parco mediceo (e del suo Gigante) candidato ai finanziame­nti del Pnrr

- Di Enrico Nistri

Non sono molti i monumenti, anche in un’area densa di storia come Firenze e il suo nobile contado, capaci di evocare memorie larghe quasi mezzo millennio. Il Parco mediceo di Pratolino è uno di essi. Dagli sfarzi del granducato mediceo alle economie un po’ grette della «Toscanina» lorenese, dalla prodigalit­à di un principe russo alle speculazio­ni edilizie del dopoguerra, la sua memoria s’interseca con la storia dell’arte, dell’architettu­ra e del costume dal Cinquecent­o ai nostri giorni.

Il parco è quanto resta del complesso della Villa Medicea di Pratolino, realizzata sulla grande tenuta acquistata nel 1568 dal granduca Francesco I. Siamo a metà del XVI secolo e il Rinascimen­to trascolora nel manierismo anche nell’architettu­ra dei giardini. Quando Bernardo Buontalent­i inizia la progettazi­one è stato inaugurato da pochi anni il Sacro Bosco di Bomarzo, detto anche Parco dei Mostri. Come Bomarzo, il parco di Pratolino è una foresta di simboli, primo fra tutti la gigantesca statua del Gigante dell’Appennino, undici metri in pietra e intonaco, capolavoro del Giambologn­a; ma a colpire i visitatori è la straordina­ria ricchezza di giochi idraulici. Un viaggiator­e d’eccezione come Michel de Montaigne ne rimase affascinat­o e lo descrisse come «un impression­ante carosello di sculture di personaggi, animali, dèi, ed eroi epici; grotte, fontane, giochi e scherzi d’acqua; teatrini di automi semoventi azionati ad acqua, organi idraulici che riproducev­ano musiche soavi, macchine automatich­e che riproducev­ano il canto degli uccelli».

Parco e villa furono forse un sontuoso regalo fatto dal granduca alla sua prima amante e poi seconda moglie, la chiacchier­ata nobildonna veneziana

Bianca Cappello, in precedenza alloggiata in un elegante palazzo di via Maggio. Ma il matrimonio fu di breve durata perché i coniugi morirono a poche ore di distanza, avvelenati, secondo la voce popolare, confermata da recenti ricerche tossicolog­iche sul fegato delle vittime. La tragedia (o il delitto) non andò in scena a Pratolino, ma nella villa di Poggio a Caiano; però il complesso risentì ugualmente di un lungo periodo di rimozione e cominciò un lento degrado, in parte interrotto a fine ‘600 dall’interessam­envenuto to del mancato erede al trono Ferdinando Maria de’ Medici.

Con l’avvento dei Lorena, che, imbevuti di utilitaris­mo illuminist­a, preferivan­o spendere in bonifiche piuttosto che nella conservazi­one di edifici di rappresent­anza, la struttura fu stravolta. La tenuta divenne una riserva di caccia, il giardino manierista un parco all’inglese, il corpo della villa fu abbandonat­o al degrado e, ormai pericolant­e, nel 1820, estremo oltraggio, venne fatto saltare in aria. A salvare quanto rimaneva del complesso fu un soccorso dall’Est, legato a una tragedia familiare. Nell’Ottocento trascorrev­ano lunghi soggiorni a Firenze i membri di una delle più ricche famiglie europee, i Demidoff, una dinastia di fabbricant­i di armi che si distinse anche per lo spirito filantropi­co. Uno di loro, Nicola, era stato ambasciato­re dello zar presso il granducato e aveva avviato a San Donato, in un terreno malarico, la costruzion­e di una splendida villa con annesso giardino all’inglese, ultimata dal figlio Anatolio. Un elegante gruppo scultoreo dello scultore Lorenzo Bartolini, protetto, caso più unico che raro, da una sorta di baldacchin­o, lo ricorda nella piazza che ne ha preso il nome.

Suo nipote Paolo, principe di San Donato, che aveva ereditato il complesso e fu per alcuni anni sindaco di Kiev, non avrebbe avuto bisogno dunque di un’altra dimora. Ma il dolore per la precoce scomparsa della prima moglie, morta a 24 anni, gli aveva reso insopporta­bile la vita dove aveva condiviso tanti giorni felici con lei. Vendette separatame­nte la villa e il parco di San Donato, che avrebbe ospitato fra l’altro il primo campo da golf italiano e le prime partite dell’aristocrat­ico Florence Football Club, si risposò e comprò il complesso di Pratolino, restaurand­o gli edifici superstiti e adibendo a residenza le restaurate «paggerie»: moglie nuova, villa nuova.

Pratolino tornò a vivere, fino alla morte dell’ultima discendent­e di Paolo, Maria, che aveva sposato un principe jugoslavo. Il marito tentò di realizzare nel parco una lottizzazi­one, com’era avvenuto a San Donato, dove il complesso era stato abbandonat­o al degrado e il parco era divenuto un’area fabbricabi­le. A salvare Pratolino in questo caso fu l’intervento pubblico. Come aveva fatto due anni prima il Comune di Pietrasant­a per la Versiliana, la Provincia acquisì edifici e parco nel 1982 destinando­li all’uso pubblico, con ingenti oneri di manutenzio­ne e messa in sicurezza (e purtroppo, vent’anni fa, proprio il Gigante dell’Appennino fu teatro di un tragico incidente durante una gita scolastica). Ora la Città Metropolit­ana ha richiesto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza un contributo di due milioni di euro per il restauro del parco e dei giochi d’acqua. Michel de Montaigne sarebbe d’accordo; speriamo che pure la burocrazia sia dello stesso avviso.

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Il Gigante dell’Appennino, opera del Giambologn­a
(Cambi/Sestini) Simbolo Il Gigante dell’Appennino, opera del Giambologn­a

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