TRE GUERRE E UNA VISIONE DA FIRENZE
Tra le note delle fanfare celebrative del 25 Aprile una è rimasta nell’aria, un ammonimento in sé ovvio: la Resistenza italiana ha una specificità che non autorizza comparazioni con quella che il popolo dell’Ucraina disperatamente oppone all’invasione russa. Come se la solidarietà fattiva verso chi si difende — resistendo — da un’operazione che viola ogni regola dovesse scattare sulla base della conformità o meno ad un unico paradigma, tutelato da un’analisi inquisitoria di vecchio stampo. La situazione in Ucraina è certo diversa dalle molteplici forme che le resistenze europee assunsero a fronte del disegno hitleriano, ma il fattore scatenante è molto simile a quello che innescò la tragedia del conflitto mondiale. Fu l’affermazione cruenta della ricerca di uno spazio vitale attraverso annessioni e occupazioni tipiche di una brutale logica imperialistica. Putin ha in testa e l’ha del resto dichiarata o realizzata in più parti una volontà analoga, tesa a rimodellare il mondo secondo una geopolitica zarista più che sovietica. Come dar vita ad «un quadro internazionale — traggo la formula dal discorso dell Presidente Mattarella a Strasburgo — rispettoso e condiviso che conduca alla pace»? La conquista della pace, della pacificazione, è un processo difficile. Per governarlo nell’era atomica e nelle dinamiche della globalizzazione non basta ripetere nobili parole senza accompagnarle con finalità praticabili. E in Italia sono innegabili titubanze e miopie allarmanti.
Si è portata in primo piano la questione spinosa di come aiutare in Ucraina chi è impegnato nel contrastare l’aggressione e ci si interroga sulla congruità o meno della fornitura di armi. Le sanzioni, se mirate, non badando a interessi particolari, sono una via, non in contrasto con la controllata consegna di armi che consentano di resistere. Come altrimenti può svolgersi un dialogo se la premessa è quella dell’annientamento totale del nemico? Le due vie sono complementari. Chi ha il potere di imporre il cessate il fuoco all’aggressore? Questa è l’altra domanda a cui rispondere. In Ucraina si combattono tre guerre. Nella regione del Donbass e non solo è in atto una guerra civile interetnica avvelenata da oltranzismi da non enfatizzare oltremodo. Il più grande partito della destra estrema (Svoboda) ha un deputato sui 450 del Parlamento ucraino. C’è, poi, una guerra patriottica e non ci si deve meravigliare che sia sostenuta con accenti che è sbrigativo liquidare con l’etichetta di nazionalismo. Il senso di una complicata appartenenza nazionale è acuito proprio dall’imperialismo teorizzato da Putin. Infine si alza dall’Ucraina lo spettro di una guerra mondiale. E queste angoscianti preoccupazioni richiedono che si chiarisca un punto cruciale: si combatte per resistere, per non arrendersi e aprire un confronto serrato e diplomatico o si vuole andare fino in fondo, fino ad una vittoria che annulli uno dei soggetti in lotta? Trasformare — e la metamorfosi è in corso — il conflitto in scontro di civiltà può portare a sbocchi tragici per tutti. Un compromesso che suonasse premio all’aggressore sarebbe assurdo ma un’etica della responsabilità dovrebbe prevalere. È qui che s’innesta la prospettiva che spetterebbe ad un’Europa energica e concorde lanciare, sollecitando la convocazione di una Conferenza per la pace e la sicurezza sul modello degli accordi di Helsinki del 1975, della Carta di Parigi e del memorandum Budapest. Anche per avviare un itinerario del genere serve che a farsi ascoltare sia un’Europa «potenza civile» ma non disarmata. Enrico Letta ha abbozzato, in un denso saggio-manifesto che ha riscosso scarsi consensi nello stesso Pd, l’agenda della costruzione di un sistema europeo di difesa tra gli Stati che ci stanno, con il metodo della «cooperazione rafforzata»: una sorta di «polo europeo» entro la Nato che preluda ad una più riconoscibile autonomia. Tra l’altro una tale integrazione alleggerirebbe non di poco il peso delle spese militari dei 27 Stati dell’Ue, oggi superiori di quasi 4 volte a quelle della Russia, e contribuirebbe a riprendere un bilanciato disarmo. Alla vigilia della dodicesima edizione di The State of the Union, promossa dall’Istituto europeo di Fiesole, è auspicabile che vengano declinati progetti definiti. Non importa se ora appaiono impossibili. Solo pensando l’impossibile si realizzerà, proclamò Max Weber, il possibile.