È tempo di un altro viaggio
Dialoghi di Pistoia Aspettando il festival l’antropologo Adriano Favole riflette sul fallimento della globalizzazione e sui confini ristretti. «Curiosità e qualità oltre il turismo dei clic»
«Nell’era delle missioni su Marte i confini del mondo si sono ristretti. E così il viaggiare, attività che è consustanziale all’uomo da sempre, sin dai tempi dell’homo sapiens, ha cambiato del tutto senso e finalità». Ne è convinto Adriano Favole, antropologo e docente a Torino, il quale firma uno dei sei saggi appena usciti per Utet nel volume Altri orizzonti, esito dei Dialoghi di Pistoia dello scorso anno. È un viaggio nel viaggio molto interessante che incrocia scritti e pensieri di Bruce Chatwin quello che ci propone lo studioso il quale sarà presente anche quest’anno a Pistoia lui che è anche uno dei due curatori, insieme con Marco Aime, del festival diretto da Giulia Cogoli. Il suo saggio chiama in causa la pandemia e la guerra, la fine dell’antropocene e l’inizio di una nuova era, quella di un ambientalismo che si spera non sterile e che, da qualche anno, ci fa sentire anche un po’ in colpa quando prendiamo un aereo con intenti oggi considerati predatori, ma fino a qualche decennio fa del tutto normali. Come se avessimo tirato il freno a mano a Boeing e similia.
Professore perché i nostri confini si sono ristretti?
«Perché, pandemia a parte, che ci ha bloccato tutti, sono sempre più numerosi i luoghi del mondo non visitabili. Molti paesi del Medio Oriente, quelli del Golfo, ma se ci pensa già dagli anni Novanta anche tante regioni del Nord Africa e dell’Africa Occidentale, il Senegal, il Mali, oggi anche la Russia. Il boom dei viaggi fatti con disinvoltura lo si è avuto negli anni Ottanta. Oggi siamo colpiti da così tante guerre che il mappamondo sembra essersi modificato e la globalizzazione ha fallito».
Però nel suo libro lei accenna anche al senso di colpa del viaggiatore contemporaneo...
«Sì certo, l’impronta ecologica che lasciamo viaggiando è tale che i nostri spostamenti se vogliono essere rispettosi della natura, vanno contingentati e soprattutto studiati, preparati prima. Questa consapevolezza, anche se non lo vogliamo ammettere, ormai ci ronza in testa, almeno qui in Occidente, e ci fa vivere un dissidio interiore. Mi è capitato di andare in Oceania per lavoro per una sola settimana, oggi non lo farei più, parteciperei a convegni e concorsi da remoto».
Quali saranno secondo lei gli esiti di questo capovolgimento epocale?
«Dal punto di vista geopolitico in questo momento ci sentiamo molto impotenti. Ma non lo siamo, e su questo dobbiamo attrezzarci, sulla questione ecologica. Non si tratta di non viaggiare più, sarebbe un mondo da incubo, ma di farlo meno e meglio. Va rivalutato il viaggio di prossimità, il cammino e la bici, io lo faccio sempre più spesso. Va disincentivata la retorica del turismo predatorio pensato per andare a vedere ciò che si conosce già. Fino a oggi e negli ultimi decenni chi partiva lo faceva per vedere quel quadro e fotografarsi. Ma il viaggio è altra cosa: la sua ricchezza nasce da ciò anche che non prevediamo, dagli incontri casuali, da tutte quelle esperienze che ci fanno cambiare opinione su di noi e sugli altri. I viaggi hanno bisogno di educazione e preparazione. E poi mi lasci dire una cosa».
Prego…
«Dovendo fare una selezione di viaggi e di viaggiatore bisognerebbe dare la priorità ai giovani. Sono loro che devo fare più di noi l’esperienza della diversità».
Lei ne ha fatti molti anche per il suo lavoro di antropologo. Quali ricorda con più piacere?
«Forse quello in Polinesia. Ero andato lì per le mie ricerche di dottorato. Avevo un programma in testa ma una volta arrivato le cose sono cambiate, perché ho trovato e scoperto culture ed esperienze diverse da quelle che immaginavo. Questo è per me viaggiare».
Poco fa ha toccato il tema del turismo predatorio. Venezia si avvia verso il numero chiuso e non escluderei che prima o poi se ne parlerà anche per Firenze. Giusto o sbagliato?
«Non sono un amministratore e non tocca a me dire come governare quel tipo di turismo ma certo va governato, va posto un freno. Così come va stimolata una curiosità più ampia che abbia a che fare con la conoscenza della bellezza della natura e degli incontri».
Un’ultima domanda che si riallaccia a questa sua considerazione. I viaggi vanno preparati e bisogna coltivare una nuova consapevolezza ecologica prima di partire. In che modo? Ci sono delle letture che ci può consigliare?
Nuova consapevolezza I nostri spostamenti se vogliono essere rispettosi della natura vanno studiati prima
«Sì ultimamente sono molti gli antropologi e gli studiosi che si stanno occupando di queste tematiche. È molto interessante in questo senso il libro di Philippe Descola Oltre natura e cultura (Raffaello Cortina Editore ndr) che ci spinge a scoprire la continuità fisica che c’è tra umani e non umani. Un ribaltamento dell’antropocene. Poi consiglierei Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo di Anna Lowenhaupt Tsing (Keller edizioni ndr), e poi uno dei libri di Tim Ingold che ha scritto tanto sul rapporto tra uomini, animali ed ecologia. Lui rifugge dal dualismo uomo/natura».