Don Cuba, in moto per una messa unica
Il libro Bojola racconta in un volume ricco di foto lo storico viaggio del prete di Rifredi: 40 mila km fin sul Kilimangiaro con la Motom 160 Delfino. Grazie ai ricordi di «Steve» Ugolini che lo accompagnò
«La vetta del Kilimangiaro è in realtà una spianata di ciottoli neri; il Cuba cercava un altare naturale e non gli interessava conquistare la cima ma piuttosto fare quello per cui aveva compiuto il viaggio: mantenere la promessa data ai lavoratori».
È il settembre del 1954, è l’ultima pagina del libro e siamo con don Cuba a migliaia di metri di altezza, nel cuore dell’Africa dove è giunto in motocicletta partendo da Firenze per dire messa sul tetto del continente. Siamo al suo fianco, come in un film, assieme a Steve, Stefano Ugolini, le cui parole fanno rivivere un’incredibile avventura. Che Kilimangiaro ‘54. Diario di una scommessa d’amore di Lorenzo Bojola racconta, come mai è stato fatto prima, grazie a Steve e a fotografie ristampate dai negativi originali.
Il libro di Bojola, Nencini Editore, è nato quasi per caso ma non per causalità. È frutto della passione per la fotografia dell’autore, dell’essere entrato in contatto nel 2009 con il mondo di don Cuba — don Danilo Cubattoli, classe 1922 e morto a Firenze nel 2006, vicino a Giorgio La Pira, cappellano per anni delle carceri fiorentine, amico di intellettuali, nobili e popolani, anima di San Frediano — e di Ghita Vogel e quindi con il nipote di don Cuba e con Steve. Al centro delle pagine, scorrevoli, interessanti e ben scritte, il viaggio che don Cuba compì attraverso dieci stati e tre continenti per raggiungere la vetta del Kilimangiaro, in compagnia di Stefano Ugolini, a cavallo di due Motom 160 Delfino, appositamente attrezzate dalla fabbrica di Milano, con nel bagaglio anche gli abiti da messa e un altare portatile. «La prima cosa che mi disse Steve fu che erano passati quasi sessant’anni e dell’Africa ricordava solo gli episodi principali. Ma quando tirai fuori le foto e le mappe stradali e gliele mostrai quei quasi sessant’anni si annullarono di colpo e potè rifare il viaggio insieme a me, con grande dovizia di particolari», spiega nella prefazione Bojola, ed è davvero così. Le pagine volano, come le tappe e le peripezie dei due protagonisti che attraversano la Grecia, la Turchia, schivando focolai di guerra, la Siria, la Palestina, Gerusalemme, il nuovo Stato di Israele, non riconosciuto dai Paesi arabi. E che dal Cairo vanno verso il centro dell’Africa, affrontando anche un’invasione delle cavallette in Eritrea ed il grave incidente che alle porte di Addis Abeba costrinse Steve al rientro in nave in Italia, mentre il sacerdote fiorentino riuscì con l’aiuto della comunità italiana in Kenia ad arrivare a scalare il Kilimangiaro.
Un viaggio di 40 mila km anche mediatico — don Cuba amava la bicicletta e la usava per comunicare coi ragazzi, per rompere la diffidenza verso i preti, tanto che all’inizio degli anni 50 le sue gare in tonaca gli valsero una copertina della Domenica del Corriere — dato che don Cuba aveva compreso in anticipo l’importanza della comunicazione nella società del dopoguerra, ma intriso di fede profonda e umanità. Don Cuba parlava poco e faceva tanto e il viaggio nacque proprio per questo suo modo di portare nel mondo il Vangelo: fu accusato in un circolo da un gruppo di operai delle ferrovie di avere «le mani morbide», di «non sapere manco cosa sia il lavoro!»: «Noi per un piatto di minestra si fatica giorno dopo giorno come se si scalasse una montagna!», scandì un ferroviere. Lui sorrise e rispose: «E allora si fa così! Io prendo una moto a vado fino al Kilimangiaro e dalla cima dico una messa in onore di tutti i lavoratori del mondo! Ci scommetti?». Detto fatto, con la consueta grinta, il pragmatismo, la capacità di coinvolgere (fu un marchese Antinori che convinse la Motom a lavorare gratis), l’incoscienza del 24enne Steve, l’appoggio del cardinale Elia Dalla Costa, che amava quel prete inconsueto, don Cuba dette corpo alla promessa e il 25 aprile (data scelta per sottolineare i valori della Resistenza) iniziò il viaggio dei due, con starter il sindaco santo Giorgio La Pira. Le fotografie in bianco e nero ci immergono in un mondo dove i confini erano tali, le distanze reali, si sapeva poco di tutto, le strade si trovano un po’ improvvisando, un po’ chiedendo. E il racconto, con la semplicità degli occhi del ragazzo Steve che ammira il prete senza fronzoli, è una galoppata fino alla mitica cima, dove don Cuba, dopo averli lisciati con cura, indossa gli abiti per celebrare messa. «Sembrava che il suono del vento fosse il respiro affaticato di tutti i lavoratori del mondo. Quando il Cuba iniziò a celebrare, tutto si placò e giunse improvvisa la pace. Il vento smise di brontolare perché quella del Cuba era l’unica voce».