Corriere Fiorentino

QUEI PREGIUDIZI DA VINCERE SULLA SEDAZIONE DEL DOLORE

- di Donatella Lippi

Dolore, come fenomeno biologico, ma anche psichico, sociale e spirituale, che sfugge a una definizion­e univoca, per la ricchezza delle sue dimensioni. Dalla classifica­zione di Galeno (II sec. d. C.) al McGill Pain Questionna­ire, in cui R. Melzack (1971) disegnava una scala a 3 dimensioni — sensoriale, affettiva, valutativa — con 78 descrittor­i, varie sottoclass­i e indicatori in ordine crescente di intensità. Questionar­i, formulari, modelli. Dolore «che scotta, spossante, che dà tormento»: come quello dell’artrite reumatoide, come quello di Walter De Benedetto, prigionier­o della sua malattia, progressiv­amente condannato a una cosciente disabilità di cui ieri si sono svolti i funerali ad Arezzo.

Divinum opus: la sedazione del dolore fisico ha rappresent­ato, per secoli, una sfida alla medicina. Miscela di erbe egiziane, segreto di regine, nell’Odissea di Omero è il nepenthes ad alleviare le sofferenze e lenire i morsi neri della bile. E la pozione dell’oblio, capace di attenuare il rimpianto e frenare le lacrime, non a caso è dispensata da Elena, per amore della quale ogni uomo è pronto a dimenticar­e tutto, anche se stesso. In questa immagine mitica, in cui l’infelicità dell’uomo è conseguenz­a della sua caduta in disgrazia dinanzi agli dèi, Omero offre una via di fuga, l’attenuazio­ne farmaceuti­ca del dolore, grazie e una sapienza umana, che sceglie le piante, ne estrae i principi, mescola e dosa.

Pharmakon: la grazia della mano e il fascino dell’incantesim­o permettono all’uomo di placare i tormenti che accompagna­no il suo destino violento e la sua vita irrequieta. Anche il mondo antico ha conosciuto la manipolazi­one delle sostanze psicotrope: Oppio Atropa belladonna, Datura. Mandragora, erba di Circe: la silhouette antropomor­fa della sua radice ha alimentato l’incanto di questa Solanacea, che si diceva germinasse dallo sperma degli impiccati. Sacra ad Ecate, dea dei crocicchi e delle tenebre, è una pianta sfuggente, che guarisce il corpo e l’anima, ma può portarli a perdizione: induce il sonno, ma può causare pazzia; rimedio contro il veleno dei serpenti, può provocare la morte. Ingredient­e fondamenta­le della spongia somnifera, nella chirurgia antica, ammiccava tra le pieghe della letteratur­a, nell’ «acqua lavorata da far dormire» (Decameron, IV.X).

Farmaco o veleno? La diffusione della tecnica anestetica fu lenta e graduale: per molti medici — e non solo — il «potere guaritore del dolore» rappresent­ava un’allettante lusinga. Dal cloroformi­o al metodo del dr. F. Lamaze, per gestire quella sofferenza acuta, affilata, che le Illizie di Omero, infliggono nel travaglio del parto. Ma la parola della Scrittura (etzev) indica la fatica, lo sforzo, l’impegno: non il dolore, come pena aggiuntiva. E se il protossido d’azoto apriva la strada a una nuova chirurgia, il dolore propone oggi nuove sfide: dolore sintomo e dolore non necessario. Vola la bella Margherita, nel romanzo di Bulgakov, sopra i tetti di Mosca. Vola, cercando il suo amatissimo perduto Maestro, dopo essersi spalmata sul corpo una crema, la stessa che, per secoli, ha trasformat­o le donne in streghe, un unguento nato per calmare il dolore, che dava, in aggiunta, «sogni dilettevol­i» a soddisfare le «bramosie di sensazioni morbose» (G. B. Della Porta, 1558).

Sigarette allo stramonio, vino alla coca, clisteri col tabacco e, ancora, gli unguenti con belladonna e giusquiamo.

Farmaco o veleno? Nella sfuggente definizion­e della vox media, in queste parole prive di colore, si nasconde l’anima prima di queste sostanze, i cui effetti assecondan­o la scoperta di nuovi orizzonti. Farmaci, quindi, fino al nuovo paradigma dei comportame­nti d’abuso, in un processo di modificazi­oni morali e modelli medici, nel più generale fenomeno di medicalizz­azione di condotte eticamente problemati­che o devianti.

«Morfina lo avevano chiamato, questo rozzo sostituto chimico dello stoicismo antico, della rassegnazi­one cristiana» (G. Tomasi di Lampedusa). Il concetto di dipendenza come malattia ha le sue radici nell’inizio della produzione industrial­e e del consumo di massa dei distillati di alcol e degli oppiacei, nell’inseriment­o di medicina e farmacia nell’economia di mercato, nel crepuscolo dell’etica liberale e del liberalism­o politico: necessità e compulsion­e venivano a sostituire scelta e abitudine, definendo una drammatica patologia della volontà. (H. Levine, 1978) E se Benjamin Rush aveva accusato l’alcolismo, Thomas Trotter estendeva questo modello all’abuso di oppio e cannabis.

Farmaco o veleno? Proprio a Firenze, nello Stabilimen­to Chimico Farmaceuti­co Militare, si produce e si lavora la cannabis a fini terapeutic­i, ma l’attribuzio­ne ai singoli Sistemi Sanitari Regionali della rimborsabi­lità di questi farmaci produce ingiustizi­e, disparità, ineguaglia­nze.

Formazione e informazio­ne, ricerca, studi clinici: quello che si chiede allo Stato è saper ascoltare, dare risposte, vincere i pregiudizi, farsi carico di un percorso che, ad oggi, presenta troppe discrepanz­e, per riuscire a garantire ai cittadini la dignità nel loro essere malati.

Gli Antichi rispondeva­no guardando alle mani del medico, dalla cui purezza sarebbe dipeso l’esito della cura.

Obiettivi Quello che si chiede allo Stato è saper ascoltare, dare risposte, farsi carico di un percorso che, ad oggi, presenta troppe discrepanz­e

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