UN ALTRO PASSO INDIETRO
Che la decrescita demografica incidesse sulla scuola, a partire dalla primaria, era immaginabile. Ma i dati diffusi dalla Flc Cgil sono preoccupanti: a Firenze il prossimo anno gli studenti si ridurranno di 2 mila unità, con la perdita di 71 cattedre. In tutta Italia il prossimo anno «ci saranno 130 mila alunni iscritti in meno alle prime di ogni ordine e grado, che si aggiungono agli oltre 400 mila studenti persi negli ultimi cinque anni». Ma che il governo riducesse il suo impegno finanziario per la scuola e l’università, dopo aver rivendicato a ogni piè sospinto la centralità dell’istruzione, a fronte di una pandemia che ha desertificato le scuole, ma anche tutti i luoghi di cultura, dalle biblioteche ai musei, era molto meno prevedibile. Eppure il Def approvato dal Consiglio dei Ministri ad aprile «sancisce una diminuzione della spesa pubblica in istruzione di mezzo punto percentuale sul Pil entro il 2025». Inutile ricordare che piove sul bagnato. Nel 2018 la spesa pubblica per l’istruzione rappresentava il 4,0% del Pil, a fronte di una media Ue del 4,7%. L’Italia spende per l’istruzione il 15% in meno della media delle grandi economie europe e nella spesa pubblica investe per scuola e università poco più dell’8% del budget statale a fronte del 9,9% medio registrato in Ue. È come dire: la pandemia è finita, gli studenti si ridurranno, non c’è bisogno di spendere per la scuola, anzi è preferibile ridurre la spesa, visto che ci sono altre emergenze.
La tendenziale recessione, descritta da molti economisti, e il fardello sempre più pesante del debito pubblico, che fa innalzare lo spread, alimentati da una guerra che non accenna a fermarsi e alla quale l’Italia dà un suo contributo consistente in armi e dalla quale riceve pesanti conseguenze economiche, hanno riportato la scuola in coda alle priorità politiche. Il contrario di quello che serve al Paese. Dato che gli studenti si ridurranno, si dovrebbe cogliere l’occasione per investire di più e arrivare alla media europea. Non soltanto nelle infrastrutture, pure essenziali. Mancano quelle strutture oggi funzionali per una didattica nuova e più efficace, come laboratori, aule spaziose per attività di gruppo e in compresenza, attrezzature, non solo informatiche (l’unico settore che vede investimenti crescenti), per far tramontare il primato della lezione frontale. Ma soprattutto nella formazione in servizio dei docenti, di ogni ordine e grado, sempre più spesso appaltata a fantomatici enti che mirano al lucro. È l’investimento più efficace nel medio periodo. Molti tra gli attuali docenti non sono preparati ad affrontare i temi sempre più delicati dell’educazione giovanile e dell’istruzione, che muove sempre da quella capacità didattica ed empatica che fa sì che l’insegnante lasci un segno positivo negli studenti. Il deficit di formazione disciplinare e interdisciplinare, e di preparazione pedagogica e didattica si nota anche nell’incapacità di intervenire su quella galassia di conflitti, ansie e depressioni che pesa sui giovani, specie in seguito alla pandemia. «Le persone più segnate dalla pandemia sono gli adolescenti», ha ricordato lo psicologo Simone Mangini sul Corriere Fiorentino di mercoledì scorso, producendo sempre più spesso«rabbia o ritiro sociale». È a loro innanzitutto che bisogna dare un segnale, che non può essere quello dei tagli agli investimenti necessari già prima della pandemia. Figuriamoci ora.