«Tra due mesi compriamo le armi, in ogni città ci servono dieci persone»
Le intercettazioni dell’inchiesta condotta dalla Dda di Genova: vari incontri tra i vertici del gruppo a Roccastrada, in Maremma
La presunta rete — a detta degli esperti dell’Antiterrorismo — passava dalla Toscana. Non solo a Firenze, dove è stato arrestato un pakistano, ma anche in altre città. Come ad esempio a Roccastrada, in provincia di Grosseto, dove la Digos ha attestato la presenza di due indagati, tra cui uno considerato il capo, nella cittadina della Maremma. Le indagini della Dda di Genova ipotizzano l’esistenza della cellula — chiamata «Gabar» — operativa in diverse province italiane — compresa la Toscana — e in alcuni paesi Europei, riconducibile ad un gruppo più ampio composto
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sempre da pachistani, tutti contatti di Zaheer Hassan Mahmoud. Quest’ultimo, il 25 settembre del 2020, si presentò con una mannaia in mano davanti all’edificio che aveva ospitato Charlie Hebdo fino all’attentato del gennaio 2015 in cui morirono 12 persone: dopo l’arresto disse agli investigatori di voler punire il giornale satirico per la nuova pubblicazione delle caricature di Maometto, senza però sapere che la redazione aveva traslocato. Ferì due giornalisti impiegati in un’agenzia di stampa.
La presunta cellula terroristica pakistana — 14 gli arresti in Italia ma anche all’estero — sarebbe stata pronta a comprare armi e a reclutare sodali in Italia. «Tra due mesi compriamo armi», si dicono il capo della cellula italiana e il «maestro», pachistano di 33 anni. E, ancora, «ora bisogna andare in ogni città e trovare quelle 10 persone che mi servono.., più saremo, meglio è…..”, si dicono mentre cercano un posto dove stare: “fammi lavorare due mesi, e poi troviamo una nostra “Tana” e facciamo il gruppo Gabar qui in Italia».
Due mesi prima dell’attentato sotto l’ex sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi, alcuni degli arrestati si erano fatti una foto sotto la
Gli uomini finiti nel mirino degli inquirenti erano tutti impegnati «a diffondere online dottrine religiose improntate alla violenza»
Torre Eiffel insieme all’attentatore e l’avevano pubblicata sui social con la didascalia «abbiate un po’ di pazienza… Ci vediamo sui campi di battaglia». Il mondo dei social è presente. Ad esempio: il presunto capo della cellula terroristica pakistana brandiva machete o coltelli di grandi dimensioni mimando insieme agli altri il «taglio della gola» per strada o dentro abitazioni. Spesso appare avvolto da tunica e copricapo neri mentre recita testi inneggianti alla violenza oppure mentre è in compagnia di connazionali. L’inchiesta ha avuto il punto di svolta con il rientro in Italia, nell’aprile dello scorso anno, del principale indagato, il pachistano di 25 anni, in precedenza domiciliato a Chiavari, dove aveva fatto rientro subito dopo la riammissione dalla Francia, prima di trasferirsi in provincia di Reggio Emilia. Nel Paese transalpino era stato arrestato due mesi prima per porto in luogo pubblico di un grosso coltello. Proprio lui — hanno accertato gli esperti della Digos — sarebbe in contatto col pakistano arrestato a Firenze.
Dalle indagini è emersa una pubblicazione continua di video e post di fanatismo religioso e violenza riconducibili alla cellula. Oltre alle manifestazioni di vicinanza all’autore dell’attacco di Parigi, anche lui membro del Gruppo Gabar Francia, e di piena condivisione delle motivazioni che lo avevano portato a passare all’azione, l’indagine ha consentito di scoprire il substrato ideologico degli indagati, molti dei quali impegnati a diffondere online dottrine religiose improntate alla violenza, «in piena aderenza alla linea di predicatori che incitano all’uccisione di coloro che si “macchiano” di blasfemia».