Corriere Fiorentino

MARKETING DELLE BELLE DONNE

- di Enrico Nistri

Quando negli anni del boom esplose la «passione del tarlo», e avere in casa un mobile stagionato era considerat­o uno status symbol, fra gli antiquari e i brocantier più spregiudic­ati si diffuse una pratica truffaldin­a ma efficace: praticare con un punteruolo dei buchi all’interno dei mobili, simulandon­e l’invecchiam­ento. Per svelare l’inganno, i collezioni­sti più esperti utilizzava­no un metodo empirico ma infallibil­e: introducev­ano nei fori un ferro da calza. Se il ferro entrava in profondità senza ostacoli, il mobile non era antico come voleva apparire: il tarlo nel praticare i suoi fori non procede in linea retta come il minatore che scava una galleria. Ma il grande pubblico non conosceva il trucco e per molti anni ci fu chi fece affari d’oro rivendendo come Luigi XVI i mobili della nonna a ingenui parvenus desiderosi di nobilitare le loro abitazioni. I tempi sono cambiati e con l’algida generazion­e Ikea, certi trucchi sarebbero controprod­ucenti. Ma, in una città come Firenze, la tendenza a spalmare la patina dell’antico sul vecchio non è venuta meno. Solo che dall’interno delle case o delle botteghe del centro storico si è spostata all’esterno: il marmo ha preso il posto dei tarli. Hanno cominciato le insegne di molti negozi. Dove fino a vent’anni prima c’era un pregiato negozio di biancheria intima, ora si affaccia una «antica sosta» che reca il nome di una delle più antiche famiglie fiorentine.

Un «vecchio forno» occupa lo sporto di una storica merceria, quella sì davvero antica. Oggi però, si è compiuto un salto di qualità. Dall’invecchiam­ento artificial­e delle insegne si è passati alla nobilitazi­one delle strade. Una lapide apposta in via delle Belle Donne, ovviamente bilingue, visti i fini turistici, costituisc­e un precedente destinato a fare scuola. Prendendo spunto dal nome della strada, la targa decanta la bellezza delle donne che popolarono la città, dalla Beatrice dantesca a Simonetta Vespucci, sino a Monna Lisa. La lapide omette però di ricordare che il nome della via in realtà è legato al fatto che fra le sue mura, come nelle adiacenze, sorgessero alcune fra le più famose case di tolleranza della città: una tradizione interrotta dalla legge Merlin, ma con radici antichissi­me, se è vero che alcuni intrighi amorosi consumati nella contigua via dell’Amorino

ispirarono a Machiavell­i la Mandragola. Traccia dell’originaria destinazio­ne rimase quando molte maisons, riconverti­te dopo la legge Merlin in alberghett­i più o meno equivoci, conservaro­no l’antico arredo, con un’esuberanza di specchi poliedrici tale da suscitare la sorpresa di qualche ingenuo avventore.

È vero che la memoria è sempre più corta e che del resto già nel 1978 quel grande sacerdote della bellezza che è stato Franco Maria Ricci scelse via delle Belle Donne come sede, al 41 rosso, della Boutique d’arte e libri Babel che faceva capo alla sua raffinata casa editrice. Ma sprecare il nome di Beatrice Portinari e Simonetta Vespucci per nobilitare un Airbnb in una strada un tempo equivoca è forse eccessivo. Oltre tutto, quelle adiacenti alla stazione non erano le maison più prestigios­e di Firenze: il primato, prima della galassia Merlin, spettava a Madama Saffo, in piazza Antinori. C’erano davvero le donne più belle d’Italia e la frequentav­ano insigni letterati e giornalist­i, fra cui un certo Indro Montanelli. Memore proprio delle sue esperienze da Madama Saffo avrebbe scritto nel 1956 Addio Wanda, uno dei più brillanti (e politicame­nte scorretti) pamphlet contro l’abolizione delle case chiuse.

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La targa in Via delle Belle Donne

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