ANCHE NEL VESTIRSI BISOGNA IMPARARE A CAPIRE LE DIFFERENZE
In questi giorni si sono susseguiti molteplici commenti sul caso della ragazzina andata a scuola con un top che lasciava scoperta la pancia. Si tratta di un caso assunto agli onori della cronaca ma che ne rappresenta molti altri. Il tema prevarica il semplice «dress code», sono molteplici gli aspetti dei giovani che talvolta si liquidano con un «ma che maleducato!»: ragazzi che si presentano a casa degli amici ed entrano come se fossero a casa propria, senza salutare; che si fermano a pranzo dal compagno e a fine pasto si alzano senza ringraziare; che non sanno più neanche articolare un discorso utilizzando il «lei» perché usano indifferentemente il «tu» con tutti, che si rivolgano alla propria amica, al dottore o a uno sconosciuto.
Ovvio, non sono tutti così i giovani, ma se ne parla tanto perché sta diventando un fenomeno diffuso. Siamo noi adulti che non capiamo più i giovani? Cerchiamo di imporre modelli superati? Siamo diventati come quei padri bigotti che contestavamo? Al vecchio eskimo, gonne a fiori e capelli lunghi, ora si contrappongono top e shorts?
Molti se la cavano dicendo superficialmente che ora è così, sono solo mode, «che vuoi che sia!». Altri chiedono di definire dei regolamenti («in fondo per gli uomini l’abbigliamento richiesto è specificato»), che per altro mi sembra molto difficile da codificare. La ragazzina in questione alza il tiro: «Il problema non sono io: sta negli occhi di chi mi guarda. Devo sentirmi libera di vestirmi come voglio!». In realtà non ci vestiamo come ci pare, ma come pare alla moda, e ventilare censure in stile Isis (le donne arabe costrette a coprirsi per non suscitare pensieri sconvenienti negli uomini) mi pare decisamente eccessivo. La colpevolizzazione delle donne per il loro abbigliamento («vanno in giro vestite così e poi si lamentano se le violentano») è un tema sentito tante volte e ancora purtroppo attualissimo. Non mi sembra però che sia questo il caso: la libertà di esprimersi di ognuno va rispettata, certo, senza censure ma va anche rispettato il contesto in cui ci si trova.
Anche la moda suggerisce un linguaggio diverso, per andare in palestra, a un matrimonio o in discoteca. Con il modo in cui ci presentiamo, con il vestito che indossiamo, mandiamo dei messaggi: ma qual è il messaggio in questo caso? Perché la scuola si può frequentare senza nessun riguardo nell’abbigliamento? Quello che a me preoccupa non sono i centimetri di pancia scoperti, ma l’incapacità di vedere le differenze e fare una valutazione del contesto: non per adattarsi, non per formalismo, ma per capacità di analisi. Imparare che ci sono molte sfumature nelle situazioni, nei luoghi e nelle relazioni e che ognuna di queste richiede un diverso modo di porsi, non può che essere una ricchezza, una capacità. Come conoscere 1.000 vocaboli di una lingua straniera invece che 100! Ma saper differenziare le situazioni e coglierne le variabili non è semplice né istintivo: se con un bambino piccolo ci si entusiasma perché dice «ciao» a tutti, c’è un momento in cui questo ciao deve potersi differenziare anche in «buongiorno», «arrivederci». È un lavoro però che necessita di allenamento, e aiuto da parte degli adulti. Invece a tanti ragazzi non è mai richiesto di sperimentare queste differenze.
Peraltro, sono anche diminuite le occasioni per fare pratica del diverso modo di rapportarsi con le persone. Un esempio: ai tempi in cui c’erano solo i telefoni fissi, quando volevi parlare con un amico si chiamava al numero di casa e non si sapeva chi avrebbe risposto: poteva essere la madre o il padre, con cui era necessario fare un minimo di convenevoli, dichiarare chi eri e chi cercavi. Una cosa piccolissima, ma era un modo di «entrare in casa» e di doversi rapportare con adulti sconosciuti. Ora, col cellulare, questo esercizio di modulazione non c’è più: sai per certo che risponderà l’amico. Se è un limite non trovare la consapevolezza delle differenze nei ragazzi, trovo sia ancora più grave che gli adulti lo accettino senza reagire perché si accompagna all’incapacità di trasmettere un messaggio di rispetto per le istituzioni (intanto la scuola, ma poi ci saranno tutte le altre) e anche un valore di considerazione verso gli altri: sono io che devo adeguarmi a diverse sensibilità e riuscire a comunicare con linguaggi che non sono tipicamente miei ma del mio interlocutore, invece che pretendere che tutti gli altri si pongano al mio livello e accettino le mie modalità espressive (compreso il vestiario!).