Avevano predetto l’Apocalisse, please Ma poi hanno scoperto il gusto dell’Italia
Bellamy, i testi alla Nostradamus e l’amore per il nostro Paese: «Mi avete insegnato tante cose»
«Questa è la fine del mondo. Ed è ora di vedere un miracolo. Dai, è tempo di qualcosa di biblico, per tirarcene fuori». Rimandato per due anni, causa pandemia, può essere considerato a buon diritto il concerto dei Nostradamus del rock: con la loro Apocalypse please, vecchia ormai di 19 anni, i Muse sembrano aver raccontato il futuro (speriamo) alle nostre spalle.
Non poteva essere diversamente per una band che ha fatto della riflessione apocalittica il suo costante tema di fondo, che ha cantato le guerre, la fine del mondo, lo sbarco degli alieni. Con uno stile a metà tra il rock e la musica sinfonica, attraverso l’elettronica, il progressive e un gusto che richiama la liturgia delle antiche cattedrali. Un suono pieno, avvolgente, carico degli effetti che arrivano dai pedali del bassista Chris Wolstenholme, in una tensione stilistica che non ha mancato di far storcere il naso agli amanti del punk più duro e anche agli affezionati al grunge e alla sua indolenza.
Eppure è proprio dai Nirvana, i sacerdoti del grunge, che la storia della band inglese ha inizio. Per l’esattezza da un concorso scolastico di 25 anni fa, in cui il cantante, chitarrista e autore di gran parte dei pezzi, Matthew Bellamy, decise di interpretare Tourette’s di Kurt Cobain. Il timore di non riuscire a spuntarla convinse il gruppo a spingere sull’acceleratore: trucco pesante sui volti, e palco semidistrutto dopo la performance. Risultato: pubblico in visibilio e vittoria piena. Quella band di cattivi ragazzi si chiamava Rocket Baby Dolls, prese l’attuale nome di Muse solo nel 1998. Oltre a Matthew Bellamy e Chris Wolstenholme, la formazione contava sul batterista Dominic Howard. In appoggio, dal 2004 si è unito il tastierista e chitarrista Morgan Nichols, rimasto con i Muse fino al 2019, quando è stato sostituito da Dan Lancaster.
La prima popolarità a fine anni 90, arriva dai concerti statunitensi, quando si esibiscono a sostegno dei Foo Fighters, la band nata dai Nirvana dopo la morte di Cobain. Il boom, un disco dietro l’altro, non deve attendere, con la consacrazione che arriva nel 2003 con l’LP Absolution in cui spicca il pezzo più celebre dei Muse, Time Is Running Out. Un altro testo che, manco a dirlo, quasi vent’anni dopo, nell’epoca dei Friday’s for Future, sembra una profezia sul futuro del mondo: «Non te lo lascerò soffocare, non ti permetterò di ucciderlo, il nostro tempo sta finendo».
Dopo oltre due decenni di successi, i Muse si esibiscono a Firenze Rocks. Per la prima volta in Italia, tre anni dopo le 90 mila irraggiungibili presenze di San Siro e le già superate 50 mila dell’Olimpico di Roma. Per il cantante del gruppo, Matt Bellamy, sarà però un ritorno a un passato più lontano. Per dieci anni, l’artista britannico era stato fidanzato con una psicologa italiana, che lo aveva portato spesso anche a Firenze, dove lavora. «Voi italiani mi avete insegnato il senso della famiglia — disse nel 2019 dopo il bagno di folla milanese — E ovviamente il gusto, non riesco più a bere il caffè o a mangiare la pasta in giro per il mondo come prima». La famiglia però l’ha costruita con una statunitense, la modella Elle Evans, oggi sua moglie.
Con buona pace delle tante fan innamorate di un sex symbol che tra il pesante trucco e i frequenti falsetti ha sempre giocato sull’ambiguità metrosessuale. Oggi, per la verità, Matthew Bellamy, padre di famiglia di 44 anni, probabilmente stuzzicherà un diverso tipo di immaginario. Ma una cosa non è affatto cambiata: tra gli acuti e il sound avvolgente, i Muse continueranno a far sgolare tutti i loro fan.