SE CHI LAVORA SI SENTE SULLA RUOTA DEL CRICETO (E RIFIUTA DI RISALIRCI)
Caro direttore, «136.000 persone in fuga dal “posto fisso”»; così titolava il Corriere Fiorentino domenica 5 giugno, facendo riferimento ai dati forniti dal Ministero circa l’abbandono di un posto di lavoro a tempo indeterminato in Toscana di persone per lo più appartenenti alla fascia di età tra i 20 e i 40 anni. Sono dati che fotografano una situazione che merita di essere interrogata, non solo per la loro rilevanza quantitativa ma anche per la novità rispetto ai consolidati processi che interessano da anni le giovani generazioni e il mercato del lavoro, segnati invece da disoccupazione, inattività, etc.
Ma i dati possono dire tante cose e tante ometterne. Questi numeri, infatti, ci forniscono la dimensione di un fenomeno senza dirci i motivi del fenomeno stesso. Perché qualcuno decide di rinunciare a un posto fisso e a uno stipendio garantito? Chi sono queste persone? Qual è la loro estrazione sociale? Quale lavoro lasciano? Qual era il loro stipendio? Cosa hanno deciso di fare dopo? Già solo queste domande evidenziano una situazione assai più complessa. In particolare, potremmo chiederci se queste persone lasciano il lavoro della vita, oppure se lo lasciano perché insostenibile — socialmente, emotivamente oltre che economicamente.
Se prendiamo in considerazione solo qualche altro dato, scopriamo che negli ultimi 30 anni gli stipendi degli italiani sono aumentati soltanto del 3,2 % (Ocse) a fronte di un incremento di circa il 35% in Germania e Francia. Rispetto al 2019 gli stipendi dei toscani sono diminuiti di circa 1.500 euro e quelli di chi ha meno di 25 anni raramente superano i 10.000 euro. È questo il lavoro di cui stiamo parlando? Non possiamo per altro dimenticare che il jobs act ha di fatto reso il lavoro a tempo indeterminato… un po’ meno indeterminato. Nessun meccanicismo, ci mancherebbe; ma siamo sicuri che non vi sia nessun collegamento tra questi dati? Ci sono poi le numerose interviste a imprenditori che lamentano di non riuscire a trovare persone disposte a lavorare per loro, che dichiarano di garantire stipendi più che dignitosi che nessuno vuole — complice a loro avviso il reddito di cittadinanza, vero nemico della ripartenza economica.
In realtà, come numerose ricerche evidenziano, il lavoro non è solo pagato male. Molti lavori sono peggiorati, hanno orari spesso insostenibili, logorano fisicamente e mentalmente e non sempre permettono di arrivare alla fine del mese. Il lavoro come affermazione e costruzione della propria identità sociale è sempre più raro. In Italia, inoltre, si muore quasi ogni giorno sul lavoro. Molti lavoratori non avranno una pensione dignitosa, altri non l’avranno proprio. Sempre meno lavoratori credono al posto fisso, dato che di fatto non lo è più. La Gkn, per la Toscana, parla abbastanza chiaro. I fenomeni di mobbing sono in aumento e spesso i lavoratori sono «incoraggiati» a lasciare il lavoro. Gli straordinari sono la norma, pagarli purtroppo non sempre lo è.
Molti commentatori lasciano intendere che la situazione che stiamo vivendo sia il risultato dei due anni di pandemia. È vero in parte. Spesso non ci accorgiamo che l’isolamento forzato che abbiamo vissuto non è la causa ma la valvola d’innesco di una infelicità dilagante e di stili di vita ormai insostenibili. Forse la pandemia, usando un ossimoro, ha favorito l’accelerazione del rallentamento. Il sociologo Hartmut Rosa impiega la metafora del criceto nella ruota per spiegare l’alienazione del mondo contemporaneo. La lentezza prodotta dalla pandemia deve essere piaciuta a molti, che non hanno più avuto voglia di risalire su quella ruota. E forse, più semplicemente, molte persone cominciano a lasciare un lavoro che non amano, che le debilita fisicamente e mentalmente e che, spesso, non garantisce loro una vita dignitosa.
Questi numeri, allora, per chi rappresentano un problema? Di certo per chi propone stipendi inadeguati, per chi si arricchisce sullo sfruttamento raccontando la storia di contribuire al benessere della nazione. E per il sistema economico nel suo complesso, che ne è il contenitore. Dopo decenni neoliberisti nei quali il lavoratore è stato sempre più precarizzato, ci stupiamo che le giovani generazioni, che ne ereditano le conseguenze, siano in grado di dire, come il Bartleby di Melville: «avrei preferenza di no». E di fronte alla fragilità del capitalismo contemporaneo, i capitalisti, da paternalisti che vendevano l’idea dell’azienda come grande famiglia, sono diventati vittime che si lamentano per la carenza di manodopera, incolpando i giovani di essere choosy o con scarsa voglia di lavorare. Dietro questi dati ci sono invece motivazioni sulle quali dovremmo riflettere se vogliamo comprendere il senso del lavoro oggi.
In realtà non solo vengono pagati male ma molti impieghi sono peggiorati, hanno orari spesso insostenibili, logorano fisicamente e mentalmente