RIPRENDERE I BUOI UNO PER UNO
Da qualche punto occorreva pur partire. E quello individuato dalla legge di iniziativa popolare sui centri storici che il sindaco Dario Nardella ha presentato in Consiglio comunale e che sarà proposta ai cittadini di tutta Italia è un buon punto di partenza. Schivato, almeno nel testo, il rischio della musealizzazione 4.0 del cuore delle città, a cominciare da quello di Firenze che di essere museo di se stesso pare ne abbia abbastanza, il testo si propone di indicare alcuni elementi utili perché anche i centri storici di altri Comuni possano uscire con meno ferite possibili da una morsa. Una tenaglia formata da un turismo incontrollato da una parte e, dall’altra, dalle tentazioni (quelle sempre meno controllabili) degli indigeni di affidarsi alla sua onda rassicurante che spinge alla possibilità di facili rendite di posizione, anche a discapito della stessa identità della città e di una sostenibilità economica di grande fragilità. Prevedere la limitazione temporale dell’uso turistico dell’appartamento eredità della nonna, o alla sua ingegnerizzazione, non è un attentato all’iniziativa privata, così come non lo è intervenire sulla pianificazione delle attività commerciali (con buona pace del decreto Bersani del 2006), mettendo ordine in aree pregiate di cui si è solo recentemente «scoperta» la vocazione a Patria della Schiacciata Unta. C’è invece il seme di istruzioni per l’uso di porzioni di territorio, di storia e di identità.
Ma, attenzione: le strade lastricate dalle migliori intenzioni non portano tutte all’inferno, ma sarebbe già grave se condannassero Firenze — e non solo — al limbo di una versione più umanizzata e politicamente corretta di un suo uso esclusivamente turistico. La sfida resta infatti quella del ritorno della residenza nel centro storico, come ha sottolineato anche ieri lo stesso sindaco di Firenze. Una sfida che, dobbiamo tutti esserne coscienti, prevede battaglie contro scuole di pensiero ormai stratificate, contro interessi i cui contorni sono difficilmente identificabili se non con quelli della finanziarizzazione di quasi ogni metro cubo lasciato libero da precedenti funzioni. Non misurarsi con questo tema o prendere scorciatoie significherebbe lasciare i centri storici in una stridente situazione di convivenza tra vetrine e banlieue, tra salotto buono ad uso altrui e inedita e straordinaria inversione urbanistica, per cui il centro diventa periferia, in primo luogo dal punto di vista della sua capacità di essere allineato con i criteri di vivibilità, almeno in termini di servizi, del suo immediato anello abitato che lo circonda. La nuova legge, se sarà approvata, costituisce un elemento necessario ma non sufficiente di questo percorso. E non potrà essere invocata come foglia di fico per sostenere che si è fatto il possibile. Assieme a quel testo, che ha indubbiamente benemerite caratteristiche difensive, occorreranno poi provvedimenti più aggressivi e maggiormente prescrittivi che i Comuni, come prevede la proposta di legge, potranno eventualmente mettere in campo nei 18 mesi dalla sua — sempre eventuale e non scontata — approvazione. Quella che si prospetta è una strada in salita ma che vale la pena di essere percorsa nella consapevolezza che lo strumento di una legge come questa è qualcosa che interviene quando i buoi sono ormai scappati dalla stalla e che il vero lavoro sarà quello di andare a riprenderli uno per uno e rimetterli dentro. Senza chiudere la porta. Le porte chiuse, anche solo figuratamente, non si addicono ai centri storici.
Stefano Fabbri