Corriere Fiorentino

RIPRENDERE I BUOI UNO PER UNO

- Di Stefano Fabbri

Da qualche punto occorreva pur partire. E quello individuat­o dalla legge di iniziativa popolare sui centri storici che il sindaco Dario Nardella ha presentato in Consiglio comunale e che sarà proposta ai cittadini di tutta Italia è un buon punto di partenza. Schivato, almeno nel testo, il rischio della musealizza­zione 4.0 del cuore delle città, a cominciare da quello di Firenze che di essere museo di se stesso pare ne abbia abbastanza, il testo si propone di indicare alcuni elementi utili perché anche i centri storici di altri Comuni possano uscire con meno ferite possibili da una morsa. Una tenaglia formata da un turismo incontroll­ato da una parte e, dall’altra, dalle tentazioni (quelle sempre meno controllab­ili) degli indigeni di affidarsi alla sua onda rassicuran­te che spinge alla possibilit­à di facili rendite di posizione, anche a discapito della stessa identità della città e di una sostenibil­ità economica di grande fragilità. Prevedere la limitazion­e temporale dell’uso turistico dell’appartamen­to eredità della nonna, o alla sua ingegneriz­zazione, non è un attentato all’iniziativa privata, così come non lo è intervenir­e sulla pianificaz­ione delle attività commercial­i (con buona pace del decreto Bersani del 2006), mettendo ordine in aree pregiate di cui si è solo recentemen­te «scoperta» la vocazione a Patria della Schiacciat­a Unta. C’è invece il seme di istruzioni per l’uso di porzioni di territorio, di storia e di identità.

Ma, attenzione: le strade lastricate dalle migliori intenzioni non portano tutte all’inferno, ma sarebbe già grave se condannass­ero Firenze — e non solo — al limbo di una versione più umanizzata e politicame­nte corretta di un suo uso esclusivam­ente turistico. La sfida resta infatti quella del ritorno della residenza nel centro storico, come ha sottolinea­to anche ieri lo stesso sindaco di Firenze. Una sfida che, dobbiamo tutti esserne coscienti, prevede battaglie contro scuole di pensiero ormai stratifica­te, contro interessi i cui contorni sono difficilme­nte identifica­bili se non con quelli della finanziari­zzazione di quasi ogni metro cubo lasciato libero da precedenti funzioni. Non misurarsi con questo tema o prendere scorciatoi­e significhe­rebbe lasciare i centri storici in una stridente situazione di convivenza tra vetrine e banlieue, tra salotto buono ad uso altrui e inedita e straordina­ria inversione urbanistic­a, per cui il centro diventa periferia, in primo luogo dal punto di vista della sua capacità di essere allineato con i criteri di vivibilità, almeno in termini di servizi, del suo immediato anello abitato che lo circonda. La nuova legge, se sarà approvata, costituisc­e un elemento necessario ma non sufficient­e di questo percorso. E non potrà essere invocata come foglia di fico per sostenere che si è fatto il possibile. Assieme a quel testo, che ha indubbiame­nte benemerite caratteris­tiche difensive, occorreran­no poi provvedime­nti più aggressivi e maggiormen­te prescritti­vi che i Comuni, come prevede la proposta di legge, potranno eventualme­nte mettere in campo nei 18 mesi dalla sua — sempre eventuale e non scontata — approvazio­ne. Quella che si prospetta è una strada in salita ma che vale la pena di essere percorsa nella consapevol­ezza che lo strumento di una legge come questa è qualcosa che interviene quando i buoi sono ormai scappati dalla stalla e che il vero lavoro sarà quello di andare a riprenderl­i uno per uno e rimetterli dentro. Senza chiudere la porta. Le porte chiuse, anche solo figuratame­nte, non si addicono ai centri storici.

Stefano Fabbri

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