Il leader che fece Firenze
Tuffo nel passato Il banchiere più potente d’Europa, lo statista, il mecenate innamorato dell’arte e dei libri: tutto su Cosimo de’ Medici, padre del Rinascimento, nella biografia di Lorenzo Tanzini
Dovevano chiamarsi Cosma e Damiano i gemellini nati in casa Medici il 10 aprile 1389. Perché il babbo, Giovanni di Bicci, e la mamma, Piccarda Bueri, ci tenevano a metterli sotto l’amorosa tutela dei santi gemelli d’Oriente, oltretutto protettori dei medici e spesso raffigurati con i simboli della professione. Damiano, però, non sopravvisse e Cosma divenne, più toscanamente, Cosimo. Che non rimase figlio unico perché nel 1394 i genitori gli dettero un fratellino: Lorenzo. Da non confondersi col Magnifico, che vedrà la luce nel 1449. Ma il bel lustro rinascimentale principia da Cosimo ed è giusto che gli venga dato il suo. Lo fa al meglio Lorenzo Tanzini, docente di Storia Medioevale all’Università di Cagliari, in una documentata biografia che intriga come un romanzo pieno di personaggi, eventi e sorprese (Cosimo de’ Medici. Il banchiere statista padre del Rinascimento fiorentino, Salerno).
Va subito detto che Giovanni di Bicci, fu saggio, prudente ed operoso. Partito dalla mercatura, iniziò la sua attività di banchiere, forte dell’esperienza di un altro Medici, Vieri di Cambio e attese ai suoi affari con scrupolo, lavorando sodo e non mischiandosi alle beghe di fazione. Così vide decollare le sue imprese, la sua immagine sociale crebbe e per due volte, nel 1402 e nel 1408, rivestì l’ufficio di priore senza farsi troppi nemici. Intanto Cosimo cresceva tutto contento dei frequenti soggiorni che poteva godersi nella casa di campagna, al Trebbio. Con un amore per la tranquilla vita dei campi, che si portò dietro anche in età adulta, quando ne discorreva con l’umanista, amico e collaboratore, Poggio Bracciolini. Uno dei tanti studiosi con cui Cosimo ebbe dimestichezza perché alla cultura ci teneva. E non solo perché le opere dei classici nutrivano lo spirito ma anche perché — come gli aveva sempre ripetuto babbo Giovanni, garantendogli un’ottima istruzione — il loro magistero «formava», anche per muoversi adeguatamente nella vita pratica. Insomma, come più volte Tanzini ha occasione di rimarcare — quella Firenze vivace, attiva, spregiudicata di mercanti e banchieri, di coomaggiare gnomi illustri come Acciaiuoli, Bardi, Frescobaldi, Peruzzi, Spini, Albizzi — è anche una città dove si sa che per condurre bene gli affari — investimenti nella manifattura tessile e in quella della seta, settore trainante dell’economia fiorentina nel XV secolo — e, di conseguenza, per aspirare a cariche pubbliche di prestigio, e mantenerle, bisogna essersi fatti un’esperienza anche grazie a letture importanti, con uomini importanti accanto, da in tutti i modi. E il mecenatismo garantisce un’immagine da «spendere» pubblicamente.
Cosimo — che sin da giovane ama dibattere di filosofia, di poesia, di arte — impara presto quanto valga, in tutti i campi, l’intelligenza, e a insegnarglielo sono personaggi di rango come Bracciolini, Bruni, Salutati e tanti altri, che ammirano la sua passione per i libri, custoditi in una biblioteca dove c’è di tutto: da Dante e Boccaccio ad Aristotele ai classici.
Cosimo impara, si è detto. Il Banco Medici — che è uno degli interlocutori del Papato, allora diviso nelle due obbedienze, di Roma e di Avignone, per cui occorre sapersi barcamenare — è una scuola di vita. E di sapienti equilibri. Cosimo nel 1415 si è sposato con una fanciulla di illustri natali, Contessina de’ Bardi, nel 1416 è priore per un paio di mesi, via via comincia a viaggiare per l’Europa in varie faccende affaccendato ed entra in contatto con interlocutori di prestigio: pontefici, principi, signori. Aver la testa fina significa conoscere gli uomini e ispirare fiducia in tutti, senza però fidarsi troppo degli altri e impegnandosi in una continua gestione delle informazioni.
Ma non basta. Infatti le antiche famiglie magnatizie sono avverse a «parvenu» considerati amici del popolo come i Medici e più che mai dopo il 1420 quando Giovanni si ritira dalla vita attiva e lascia ai figli la gestione del Banco, che sta fiorendo con filiali a Bruges, Parigi, Londra e in altre importanti città d’Europa. L’odio si scatena e a partire dal 1430, e con Albizzi e Strozzi che spadroneggiano, Cosimo è la vittima designata: incarcerato, con la morte sospesa sul collo, e infine l’esilio. L’accusa? Aspirare alla dittatura. Ma non è possibile tener lontano — a Padova e a Venezia dove continua a far prosperare gli affari del Banco — un uomo, per dirla col Machiavelli delle «Istorie fiorentine», universalmente amato. Nell’ottobre del 1434, dopo che gli oligarchi hanno rivelato la loro pochezza nel fronteggiare i malesseri interni e i problemi esterni Cosimo rientra trionfalmente in città. E per trent’anni, fino al 1464, dispiega le vele, con iniziative di governo avvedute e accorte, e con l’aura del grande mecenate innamorato della sua città. Basti pensare al ribaltamento degli scenari di politica estera, grazie all’amicizia, in funzione antiveneziana, con Francesco Sforza (nuovo signore di Milano dopo la morte di Visconti); ai provvedimenti istituzionali (la creazione di nuove magistrature, come il Consiglio dei Cento da assegnarsi ad uomini di fiducia, per tener saldo il potere, pur nel rispetto per le libertà repubblicane); agli interventi architettonici, a San Marco, a San Lorenzo, alla Badia Fiesolana; alla fondazione dell’Accademia Neoplatonica con Marsilio Ficino e Cristoforo Landino. Insomma, «un leader di prima grandezza» che, come spiega Tanzini, agisce «al cuore di una Repubblica». Padre della patria fiorentina e del suo Rinascimento.