Le foto, il maestro della vita
Personaggi Da Firenze a Milano col sogno di diventare fotografo fino all’amicizia con Barbieri ora al centro del suo documentario. Emiliano Scatarzi racconta il suo lavoro, in cerca di bellezza
La storia di Emiliano Scatarzi è quella di tanti artisti fiorentini che volano via dalla loro città per approdare verso contesti più ricchi di opportunità. Il fotografo, filmmaker e regista, da venticinque anni vive a Milano e si è fatto notare di recente per il documentario Gian Paolo Barbieri – L’uomo e la bellezza, dedicato a uno dei giganti della fotografia italiana, che ha vinto il Premio del pubblico al BiograFilm Festival di Bologna. Il film uscirà nei prossimi mesi prima nei mercati esteri, poi in Italia. Con Scatarzi abbiamo ripercorso la sua storia di creativo.
Da Firenze a Milano: qual è stato il suo percorso professionale?
«Ho cominciato un po’ come tutti i fotografi che iniziano a lavorare a Firenze: matrimoni e moda. Mi piaceva di più la moda e ho realizzato alcuni servizi per marchi fiorentini come QuintEssenza e MisterX, arrivando perfino a esporre le mie foto nella galleria di Walter Bellini. Avevo trasformato la cantina della casa dei miei genitori in una camera oscura, ma faticavo a trasformare questa passione in un lavoro. Nel 1997 facevo il magazziniere e soffrivo molto. Ma non mi sono perso d’animo e con un po’ di fortuna... Ero diventato il fotografo di una band fiorentina, gli Interno 17, che parteciparono a un contest a Milano. È stato lì che le mie foto sono state apprezzate, tanto che poco dopo iniziai a lavorare per alcune testate della Rizzoli, come Max.
A questo punto mi si aprirono le porte della moda e della pubblicità nella città che ne era e ne è la capitale».
Sono anche gli anni in cui conosce Gian Paolo Barbieri...
«Sì, era il 2001 e quell’incontro mi ha cambiato la vita. Allora ero solo un pubblicitario, con poca consapevolezza della potenza del mezzo. Quando arrivai per la prima volta su un suo set stava lavorando con Monica Bellucci. Barbieri era educato, gentile, colto, tutto il contrario dei fotografi che avevo conosciuto fino ad allora, che non guardavano oltre il loro piccolo orticello. Mostrò da subito quello che era: un maestro di professione e di vita. Da quel giorno è nato un grande rapporto professionale e umano che dura tutt’oggi».
Che cosa le ha insegnato?
«L’umiltà, la passione per il lavoro e per il voler fare, e soprattutto ad ampliare il mio sguardo. Grazie a lui ho iniziato a collaborare con il terzo settore, e in particolare con Fotografi senza frontiere, che è una onlus, ho viaggiato di più, facendo un lavoro di antropologia visuale con bambini e adolescenti. Vorrei citare una sua celebre frase: “La bellezza è una forma di cultura”. È l’estetica pura, cioè l’insegnamento che tutto può avere un valore: anche una foglia può diventare un’immagine bella».
Il passo verso il documentario su di lui è stato naturale...
«Sì. In questi anni l’ho fotografato e continuato a realizzare dei video sui suoi set. Ho accumulato molto materiale che ho ritenuto potesse costituire l’ossatura di un film biografico. Abbiamo poi aggiunto le testimonianze delle tante persone che hanno lavorato con lui (tra cui Monica Bellucci, Dolce & Gabbana, Benedetta Barzini, ndr), entrando a far parte del bellissimo “mondo” che è riuscito a creare intorno a lui. Non dimentichiamo che nonostante abbia 87 anni e sia affetto dal Parkinson, Barbieri continua tutt’ora a lavorare».
La fotografia di oggi che cos’ha raccolto dell’insegnamento di Barbieri?
«Purtroppo pochissimo. Barbieri ha iniziato a lavorare negli anni 50, quando le fotografie erano “lente”, cioè richiedevano un tempo necessario per crearle e osservarle. E soprattutto restavano, tant’è che le sue foto sono durate per decenni. Quelle di oggi, al contrario, durano in media mezz’ora. Siamo all’usa e getta, al tutto e subito, alla foto che vive al massimo 24 ore, il tempo di una story su Instagram. Il passaggio al digitale ha contribuito tantissimo a questa trasformazione. La foto è ormai qualcosa di sempre più effimero e manipolabile. Non si lavora più sulla bellezza, ma sulla quantità, che è quello che chiede il sistema visivo in cui siamo immersi. A Milano ci sono più fotografi che panettieri, ma sono pochissimi i veri “creatori” di immagini e manca lo spirito critico».
Milano è la sua città, come vede la Firenze di oggi?
«A un’ora e quaranta di treno è come andare da un quartiere all’altro di Londra... Sono nato e cresciuto tra Campo di Marte e Coverciano, quindi la vedo con nostalgia, perché mi ricorda l’infanzia e l’adolescenza, il tempo più bello della vita. A parte questo non ho rimpianti. Milano dopo l’Expo del 2015 ha avuto una vera e propria rinascita e ora “guida” l’intero Paese. Firenze la vedo un po’ immobile, anche se qualche iniziativa sul contemporaneo c’è. Il problema è che se a Firenze vuoi fare un lavoro un po’ al di fuori di quelli standard è molto difficile, non c’è un “sistema” che possa accoglierti e farti crescere. Ma la città è così perché vive di un’estetica e di una monumentalità che viene dal passato e che non gli permette di emanciparsi. E che spinge alla rendita e alla gentrification. E questo può essere letale, perché strozza sul nascere ogni slancio. Poi un conto è la gentrification di un quartiere di una grande metropoli europea come Berlino o Londra, un conto è Firenze che, come molte città italiane, non ha grandi dimensioni e ha nella sua gente e nei rapporti sociali quotidiani la sua forza civile».
Critiche Le foto oggi? Siamo all’usa e getta, allo scatto che vive il tempo di una story su Instagram