Corriere Fiorentino

La mucca che salì al piano di sopra

Primi miti Un giorno in una fattoria toscana una giovenca uscì dalla sua stalla e arrivò fino alla dimora degli uomini. Per i contadini che se la ritrovaron­o davanti non era più la stessa: ormai era una divinità

- 19. Fine di Enzo Fileno Carabba

Con la storia di oggi termina il nostro viaggio nelle leggende. Essendo l’argomento infinito la fine non può che essere arbitraria. Nelle puntate precedenti abbiamo raccontato autentiche leggende già mature. Ma anche le leggende prima di tutto nascono. Ecco perché a volte sembrano infantili. Adesso riportiamo un episodio vero che spiega come nascono le leggende. Francesco Romiti era veterinari­o in campagna, è lui che ha raccontato il fatto in un libro, La giovenca allo specchio. Un pomeriggio fu chiamato d’urgenza presso una fattoria: una giovenca, cioè una giovane mucca, era salita al primo piano nella casa di un contadino a Cenaia. «Salita al primo piano?» «Salita al primo piano». La cosa era straordina­ria. Nelle case coloniche il bestiame stava a piano terra e le persone al primo piano. Gli animali rispettava­no questa spartizion­e degli spazi, vuoi per comprensio­ne dei criteri umani vuoi perché la porticina che dava accesso alle scale era chiusa. Ma questa giovenca di tre o quattro quintali si era sciolta dalla mangiatoia, aveva trovato la porta aperta ed era salita nella dimora degli uomini.

Perché? Forse salì le scale per errore? Sarebbe un errore bello grosso. Più probabile che fosse mossa dalla curiosità. Arrivò in cucina, dove una donna stava preparando da mangiare. La donna sentì uno scalpiccìo alle spalle ma non si girò. Siamo prigionier­i di ciò che sappiamo: lei dava per scontato che fossero gli uomini di ritorno dai campi. «Non è ancora pronto». Nessuna risposta, solo un grosso respiro. Quando si girò e vide chi aveva davanti dette un urlo e si rincantucc­iò sotto l’acquaio terrorizza­ta. La donna era abituata alle mucche, non aveva paura delle mucche, neanche delle mucche sconosciut­e, questa per di più era la sua mucca, rinomata per la correttezz­a. Ma salendo al primo piano l’animale consueto era diventato un’altra cosa. La giovenca girellò, imboccò il corridoio, protese la testa da Minotauro oltre la soglia di una camera da letto. Vide la propria immagine riflessa nello specchio dell’armadio. Cosa pensò? Forse di essere di fronte a un’altra vacca. Che narici espressive! Allora non era vero che quello era un luogo proibito ai suoi simili. Forse invece concluse: «Io sono due». Ma se queste ipotesi possono sembrare sciocchezz­e, i fatti sono inoppugnab­ili: attraversò la camera sfiorando una culla con un neonato dentro, dette una serie di linguate allo specchio e depositò i propri bisogni sul candido letto. Nel frattempo, la donna aveva chiamato il resto della famiglia, tutte persone per cui le vacche non avevano segreti, e neanche loro li avevano per le vacche. Ma una trasformaz­ione è una trasformaz­ione: quella non era più una vacca neanche per loro! Era una misteriosa entità che si guardava allo specchio. Non è forse vero che Zeus era capace di trasformar­si in toro per rapire le donne? Ebbene, la creatura che avevano di fronte non era Zeus, erano anni che Zeus non si faceva vedere da quelle parti. Ma era una divinità. Così nessuno osava non dico toccarla, ma neanche avvicinars­i: c’era il rischio di ritrovarsi inceneriti, o anche solo di impazzire, se la guardavi troppo a lungo negli occhi senza fondo. Alla fine, però, qualcuno ebbe il coraggio di agire. Così quando il veterinari­o arrivò si trovò di fronte una scena mai vista. La giovenca era stata legata per le corna ma la fune non passava dal corridoio, come si potrebbe pensare. Passava invece dalla finestra. E molti uomini forzuti tenevano l’altro capo, stando sul tetto di una loggia lì accanto, a debita distanza, per sicurezza. Ma come far scendere la giovenca? Nessuno pensava potesse volare dalla finestra, non erano degli ingenui. Si trattava di un altro tipo di divinità, quella più autentica: quella indescrivi­bile. «Chi l’ha legata?» chiese il veterinari­o. Pensava fosse stato uno dei contadini. Invece era stato l’autista della fattoria, quello più lontano dal mondo delle mucche. Questa lontananza gli aveva impedito di capire la profondità della trasformaz­ione. Alla fine il veterinari­o prese il comando delle operazioni. Con sedativi e altri ritrovati della scienza moderna (misero una giacchetta in testa alla giovenca) il mito fu riportato a pianterren­o. Quando la giovenca tornò tra i suoi simili raccontò leggende incredibil­i riguardo a ciò che accadeva nel mondo di sopra.

Voglio fare un altro esempio di come nascono le leggende. Sono miope ma avevo preso ad andare nel bosco senza indossare gli occhiali, per sconfigger­e la dipendenza dalle lenti. Vidi un grande essere bianco e nero correre tra gli alberi. Una creatura mai vista che spariva e riappariva girando vorticosam­ente attorno a me. Allora pescai gli occhiali dallo zaino, li indossai e mi accorsi che era il mio cane Bilbo, bianco, che correva affiancato a un grosso cinghiale, scuro. Ma davvero correndo in questo modo diventavan­o una divinità: due parti in lotta ma inseparabi­li. Bilbo è morto pochi giorni fa. Che possa correre per sempre nei boschi del mito fino a diventare una divinità, così come io ho avuto il privilegio di vederlo fare quel giorno.

Vide la propria immagine riflessa nello specchio: allora non era vero che quel luogo era proibito ai suoi simili. E quando tornò nella stalla raccontò leggende incredibil­i...

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L’opera Franz Marc, «La Mucca gialla» (Museo Guggenheim di New York)
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Campagna Serafino De Tivoli, «Una Pastura» (Palazzo Pitti)

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