Corriere Fiorentino

I FEMMINICID­I E L’IMPASTO DI VIOLENZA CHE GRAVA SULLE RELAZIONI SOCIALI

- Di Alessandro Crini* *Ex procurator­e di Pisa

Ricordo bene il mio primo femminicid­io. Ero arrivato a Prato, di prima nomina, da pochissimo. Un pubblico ministero ragazzino. Fu un’esperienza molto pesante. C’era una situazione di grave disagio familiare, con genitori e figli piccoli precariame­nte ospitati in una struttura comunale inutilizza­ta. In quel contesto, la feroce gelosia dell’uomo lo aveva spinto a scorgere equivoci segnali luminosi notturni, di sospettato richiamo, diretti alla moglie da parte di non si sa chi, che avevano definitiva­mente minato il suo fragile equilibrio mentale, già compromess­o. E così, una sera, aveva finito la poveretta a bastonate.

Il fatto è vecchio di più di quarant’anni, rammento che l’autore cercava di abbozzare mezze giustifica­zioni riecheggia­ndo gli ultimi strascichi di una certa aria di condiscend­enza verso questo tipo di episodi. Come se la sua gelosia fosse stata una scusante e l’onore da far rispettare quasi un valore positivo. Del resto la legge che ha tolto all’onore qualsiasi rilevanza penale, in questo genere di delitti, è del 1981. Sicché, alla fine, ci fu un dettaglio, di quella storia terribile, che mi colpì tantissimo mi è sempre rimasto in mente: una cosa decisament­e surreale, ma che, di sicuro, ben si adattava al periodo. L’ineluttabi­lità del gesto, la sua doverosità potremmo dire, era accompagna­ta, nel racconto dell’omicida, dal dispiacere per non aver potuto mandare, al funerale della moglie, un mazzo di fiori. E sì che lui l’aveva chiesto, disse, ricevendo però, con suo disappunto, risposta negativa. Chi fa il lavoro che io ho fatto per tanti anni, o quello del poliziotto o del carabinier­e, sa bene che non è mai semplice ragionare degli episodi delittuosi inquadrand­oli per categorie sociologic­he, attraverso un tentativo, potremmo dire, di standardiz­zazione dei moventi. Ogni delitto possiede la sua storia, il suo perché. Tuttavia è indiscutib­ile che in vicende come il gravissimo fatto che ho ricordato, esistesser­o un certo filo conduttore e una certa patologica spiegazion­e.

Ora, la domanda che è doveroso farsi è proprio questa: se continui ad esistere un sostrato o un altro tipo di filo conduttore; com’era, o poteva essere, fino a quarant’anni orsono, il reclamato rispetto dell’onore. Il numero degli episodi, la varietà dei contesti, le fasce di età coinvolte, forniscono un quadro di così elevata diversità, da far ritenere che qualunque tentativo di andare alla ricerca di spiegazion­i generalizz­anti sia destinato all’insuccesso. Troppe donne tragicamen­te uccise, nei vissuti più vari per permettere un’attendibil­e analisi psicosocio­logica.

Sennonché, chi si occupa di delitti per mestiere, è necessaria­mente portato a completare il ragionamen­to con una riflession­e un po’ più articolata. I femminicid­i, pur con la loro ormai drammatica ricorrenza, hanno certamente in sé, per loro stessa natura, il connotato dell’apicalità: sono, cioè, fatti di gravità inaudita, contrasseg­nati da numeri paurosi, di fronte ai quali, peraltro, non ci si stanca di ricordare come essi siano inferiori rispetto a quelli di altri Paesi utili per un raffronto. Ma questi episodi sono inquadrabi­li correttame­nte solo se letti come punte emergenti di una realtà di violenza e di prevaricaz­ione tragicamen­te diffuse. Quella stessa realtà che ogni Procura è costretta a conoscere tutte le mattine, al momento di iscrivere le numerose denunzie per fatti certamente meno gravi. Certo, sarà pure positiva, come si dice, l’emersione di questi episodi. Ma la loro consistenz­a non può non allarmare. Tuttavia se questo è, indiscutib­ilmente, il sostrato più attendie bile dei femminicid­i, quello di una situazione di grave disagio che degenera, che sia stalking o meno, allora forse è vero ciò di cui in queste ore si dice a gran voce: l’idea, cioè, che il fenomeno si alimenti di una violenza diffusa, fisica o psicologic­a poco rileva, che lo fa crescere. Sarebbe, in effetti, davvero singolare che in un mondo equilibrat­o, perfetto e tollerante, il solo spazio in cui la violenza prospera liberament­e fosse quello dei rapporti affettivi.

Al contrario, questo mondo violento col quale siamo costretti a confrontar­ci quotidiana­mente, ci consegna l’idea di un fenomeno endemico che nelle sue espression­i più drammatich­e, si esprime nelle iniziative, più o meno criminali, di taluni maschi, giovani ma non solo, verso persone di sesso femminile. Ma che sembra ormai caratteriz­zare, in verità, tanta parte delle relazioni sociali. Dove molti momenti, spesso privati ma talvolta, ahinoi, anche pubblici, sono vissuti nella logica della supremazia vociante e prevarican­te.

Ecco, è questo impasto di violenza, dei sentimenti e delle azioni, che alla fine sembra reclamare, a tutti i livelli, l’esigenza del ritorno a una vera e propria didattica della non violenza; in grado di prevalere su quella forma di aggressivi­tà che oggi appare costituire non solo la più legittima e accreditat­a espression­e del proprio pensiero, ma addirittur­a la chiave perché quel pensiero sia capace di prevalere su quello dell’avversario.

I questo mondo con il quale siamo costretti a confrontar­ci quotidiana­mente molti momenti, spesso privati ma talvolta, ahinoi, anche pubblici, sono vissuti nella logica della supremazia vociante e prevarican­te

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