I FEMMINICIDI E L’IMPASTO DI VIOLENZA CHE GRAVA SULLE RELAZIONI SOCIALI
Ricordo bene il mio primo femminicidio. Ero arrivato a Prato, di prima nomina, da pochissimo. Un pubblico ministero ragazzino. Fu un’esperienza molto pesante. C’era una situazione di grave disagio familiare, con genitori e figli piccoli precariamente ospitati in una struttura comunale inutilizzata. In quel contesto, la feroce gelosia dell’uomo lo aveva spinto a scorgere equivoci segnali luminosi notturni, di sospettato richiamo, diretti alla moglie da parte di non si sa chi, che avevano definitivamente minato il suo fragile equilibrio mentale, già compromesso. E così, una sera, aveva finito la poveretta a bastonate.
Il fatto è vecchio di più di quarant’anni, rammento che l’autore cercava di abbozzare mezze giustificazioni riecheggiando gli ultimi strascichi di una certa aria di condiscendenza verso questo tipo di episodi. Come se la sua gelosia fosse stata una scusante e l’onore da far rispettare quasi un valore positivo. Del resto la legge che ha tolto all’onore qualsiasi rilevanza penale, in questo genere di delitti, è del 1981. Sicché, alla fine, ci fu un dettaglio, di quella storia terribile, che mi colpì tantissimo mi è sempre rimasto in mente: una cosa decisamente surreale, ma che, di sicuro, ben si adattava al periodo. L’ineluttabilità del gesto, la sua doverosità potremmo dire, era accompagnata, nel racconto dell’omicida, dal dispiacere per non aver potuto mandare, al funerale della moglie, un mazzo di fiori. E sì che lui l’aveva chiesto, disse, ricevendo però, con suo disappunto, risposta negativa. Chi fa il lavoro che io ho fatto per tanti anni, o quello del poliziotto o del carabiniere, sa bene che non è mai semplice ragionare degli episodi delittuosi inquadrandoli per categorie sociologiche, attraverso un tentativo, potremmo dire, di standardizzazione dei moventi. Ogni delitto possiede la sua storia, il suo perché. Tuttavia è indiscutibile che in vicende come il gravissimo fatto che ho ricordato, esistessero un certo filo conduttore e una certa patologica spiegazione.
Ora, la domanda che è doveroso farsi è proprio questa: se continui ad esistere un sostrato o un altro tipo di filo conduttore; com’era, o poteva essere, fino a quarant’anni orsono, il reclamato rispetto dell’onore. Il numero degli episodi, la varietà dei contesti, le fasce di età coinvolte, forniscono un quadro di così elevata diversità, da far ritenere che qualunque tentativo di andare alla ricerca di spiegazioni generalizzanti sia destinato all’insuccesso. Troppe donne tragicamente uccise, nei vissuti più vari per permettere un’attendibile analisi psicosociologica.
Sennonché, chi si occupa di delitti per mestiere, è necessariamente portato a completare il ragionamento con una riflessione un po’ più articolata. I femminicidi, pur con la loro ormai drammatica ricorrenza, hanno certamente in sé, per loro stessa natura, il connotato dell’apicalità: sono, cioè, fatti di gravità inaudita, contrassegnati da numeri paurosi, di fronte ai quali, peraltro, non ci si stanca di ricordare come essi siano inferiori rispetto a quelli di altri Paesi utili per un raffronto. Ma questi episodi sono inquadrabili correttamente solo se letti come punte emergenti di una realtà di violenza e di prevaricazione tragicamente diffuse. Quella stessa realtà che ogni Procura è costretta a conoscere tutte le mattine, al momento di iscrivere le numerose denunzie per fatti certamente meno gravi. Certo, sarà pure positiva, come si dice, l’emersione di questi episodi. Ma la loro consistenza non può non allarmare. Tuttavia se questo è, indiscutibilmente, il sostrato più attendie bile dei femminicidi, quello di una situazione di grave disagio che degenera, che sia stalking o meno, allora forse è vero ciò di cui in queste ore si dice a gran voce: l’idea, cioè, che il fenomeno si alimenti di una violenza diffusa, fisica o psicologica poco rileva, che lo fa crescere. Sarebbe, in effetti, davvero singolare che in un mondo equilibrato, perfetto e tollerante, il solo spazio in cui la violenza prospera liberamente fosse quello dei rapporti affettivi.
Al contrario, questo mondo violento col quale siamo costretti a confrontarci quotidianamente, ci consegna l’idea di un fenomeno endemico che nelle sue espressioni più drammatiche, si esprime nelle iniziative, più o meno criminali, di taluni maschi, giovani ma non solo, verso persone di sesso femminile. Ma che sembra ormai caratterizzare, in verità, tanta parte delle relazioni sociali. Dove molti momenti, spesso privati ma talvolta, ahinoi, anche pubblici, sono vissuti nella logica della supremazia vociante e prevaricante.
Ecco, è questo impasto di violenza, dei sentimenti e delle azioni, che alla fine sembra reclamare, a tutti i livelli, l’esigenza del ritorno a una vera e propria didattica della non violenza; in grado di prevalere su quella forma di aggressività che oggi appare costituire non solo la più legittima e accreditata espressione del proprio pensiero, ma addirittura la chiave perché quel pensiero sia capace di prevalere su quello dell’avversario.
I questo mondo con il quale siamo costretti a confrontarci quotidianamente molti momenti, spesso privati ma talvolta, ahinoi, anche pubblici, sono vissuti nella logica della supremazia vociante e prevaricante