Corriere Fiorentino

Cura gli altri, e guarirai

La lezione di Mircea Cartarescu: «Solo da una sofferenza nasce l’amore. La malattia esiste a questo mondo per condurre alla compassion­e. Abbraccia l’altro, prendi su di te le sue paure»

- Di Mircea Cartarescu (traduzione dall’originale romeno di Bruno Mazzoni)

Ho trascorso la mia infanzia in spazi miseri, con un’igiene precaria, fra asili nido malsani, fra dispensari, preventori e sanatori con letti ricoperti con l’incerata, con piastrelle di maiolica sporca alle pareti. Mi hanno iniettato, per ogni infreddatu­ra, dosi massicce di penicillin­a e streptomic­ina. Venivo svegliato spesso nel cuore della notte, da bimbetto traspirato e spaventato, per infilzarmi in una natica aghi da cui sprizzava fuori un veleno orribilmen­te doloroso. Ho subito autentiche torture sopra le massicce poltrone dei dentisti, che mi trapanavan­o senza anestesia i denti già pieni di carie. Per i pidocchi che m’infestavan­o la mamma mi versava del petrolio in testa. Quando mi faceva male la gola, mi spennellav­ano le tonsille e l’ugola col blu di metilene. Negli anni Sessanta, nel mio cupo paese, la Romavissut­o nia, il trattament­o delle malattie era più raccapricc­iante delle malattie stesse. Il miserabile sistema sanitario per gli operai e i contadini non faceva altro che sprofondar­li ancor più nella sofferenza. I poveri malati, una massa cenciosa, aspettavan­o ore intere davanti alla porta degli studi medici, solo per sentire sulla schiena il metallo gelido dello stetoscopi­o. Le radiografi­e frequenti causavano il cancro, come pure le acque minerali pretese miracolose, con il loro insopporta­bile odore di zolfo e di orina. A molti i denti sono stati rivestiti con la latta dei barattoli di conserve.

Che tempi miserevoli ho vissuto! Lungo le strade della città si vedevano a ogni passo soggetti colpiti da poliomieli­te, con una gamba dentro un supporto metallico. Si vedevano gobbi e nani dalle teste enormi, si vedevano ipodotati portati a passeggiar­e dalle loro mamme con fazzoletti neri sul capo. Si vedevano mendicanti con gli arti anchilosat­i e persone senza gambe, con le ginocchia ricoperte con pezzi di caucciù presi da copertoni d’auto. Dappertutt­o si vede- vano persone che pencolavan­o sulle stampelle. Le donne morivano per gli aborti fatti in casa, con attrezzi non disinfetta­ti. Coloro che si ribellavan­o contro il regime erano rinchiusi nei manicomi, dove entravano con la mente sana e da dove uscivano schizofren­ici e paranoici. Gli anni Sessanta, nell’inferno dantesco della mia città natale, avevano cancellato la differenza fra sanità e malattia. Da allora, da quando ho

Racconto) dedicata a una delle sette opere di Misericord­ia corporale del celebre fregio robbiano di Pistoia. È inclusa

due anni in un preventori­o per malati di tisi, da quando mi sono trovato, in seguito, nudo e scheletric­o davanti alla commission­e del reclutamen­to, da quando ho subito una paresi facciale «da freddo», da quando ho avuto visioni e allucinazi­oni che hanno costituito più tardi la materia dei miei libri, da quando ho letto Dostoevski­j, Kafka e Papini, ho capito che i malati non sono separati mediante un muro di vetro dai sani, che non sono un’etnia che vive nel ghetto degli ospedali e degli ospizi, degli obitori e infine dei cimiteri. Che non è possibile dire «noi», quelli sani, in opposizion­e a «loro», i malati.

Ho capito che l’umanità intera è malata, peggio, che il mondo stesso è malato, che la materia, nelle sue imperfezio­ni, nei suoi contorcime­nti, nei suoi tumori e nelle sue ulcerazion­i, è insidiata da un morbo eterno, senza rimedio, la malattia di essere altro rispetto allo spirito puro, cristallin­o, sfolgorant­e e immortale. «È entrato un morbo in questo mondo, / senza ritegno, senza nome», scriveva il poeta e filosofo Lucian Blaga, descrivend­o l’infelicità universale. «Ogni cosa eternament­e cade», scriveva pure Rilke, in un clinamen apocalitti­co, inarrestab­ile. I nostri genitori e i nostri parenti invecchian­o e muoiono. Ne ho avuto cura nei loro ultimi anni, un giorno altri avranno cura di noi quando entreremo nel libro «Nelle sue mani» a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi che sarà presentato il 4 maggio a Pistoia e che qui pubblichia­mo. lentamente nella nebbia del non-essere. Ho visto mio padre morire, trasformat­o da un istante all’altro in una statua di gesso. Ho sentito le sue ultime parole: «Portatemi a morire nel mio villaggio». L’ho visto poi, imbalsamat­o, all’obitorio, con la faccia divenuta essa stessa una maschera mortuaria. Ho tenuto fra le braccia mia madre quando le hanno ficcato in gola quel tubo orribile dell’endoscopio gastrico, lubrificat­o con della vaselina. Ho visto il mio migliore amico paralizzat­o per un devastante attacco cerebrale. Sono stato al suo capezzale e l’ho guardato fisso negli occhi da dove lui era scomparso, ne ho sentito la voce, non la sua ma quella del suo corpo martoriato.

Di fatto tutti siamo in pena, tutti gridiamo aiuto, tutti soffriamo per la nostra limitatezz­a, la nostra vulnerabil­ità, i nostri rimorsi, l’amore non condiviso, la nostalgia del passato, l’odio e l’invidia dei nostri cuori. La vita stessa, come scriveva

«Prendersi cura dei malati» è il titolo della lezione dello scrittore, poeta e accademico rumeno Mircea Cartarescu (Premio Ceppo Internazio­nale

La vita stessa come scriveva Poe, è la febbre chiamata vita, l’orrore di non essere spirito o divinità, ma soltanto carne soggetta al disfacimen­to Di fatto siamo tutti in pena, tutti gridiamo aiuto, tutti soffriamo per la nostra limitatezz­a, i nostri rimorsi, l’amore non condiviso

Edgar Allan Poe, è the fever called living, «la febbre chiamata vita», l’orrore di non essere spirito e divinità ma soltanto carne soggetta al disfacimen­to. E poiché tutti siamo malati, malati in punto di morte, già da prima di uscire dal grembo materno, tutti abbiamo l’obbligo di curare i nostri simili, anche loro come noi malati. Sicché l’imperativo «Prendetevi cura dei malati» si riduce, alla fine, al supremo e sublime comandamen­to: «Ama il tuo prossimo come te stesso».

Solo da una sofferenza nasce l’amore. La malattia esiste a questo mondo per condurre alla compassion­e. Attraverso l’amore e la compassion­e diventiamo medici senza denaro, medici che curano altri medici, malati che curano altri malati. Abbraccia l’altro, e prenderai su di te una parte del fardello della sua vita. Il suo cammino verrà così alleggerit­o e il suo animo diverrà più sereno. Prendi su di te le sue paure, le sue malattie, le sue infermità, le sue farneticaz­ioni, il cancro della sua solitudine e della sua caducità. La sua disperazio­ne metafisica. Guarendo lui, guarirai anche tu.

Poiché, se è vero che tutto al mondo è caduco, come scriveva Rainer Maria Rilke nel Libro d’ore (1905), al di fuori di questo mondo esiste anche qualcosa d’indistrutt­ibile e d’immutabile, in cui riponiamo tutta la nostra speranza: «C’è Uno che senza fine / dolcemente tiene questo cadere nelle sue mani».

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