Corriere Fiorentino

Per fare un’anima ci vuole...

Giacomo Poretti, ospite del festival di Elisabetta Sgarbi a Viareggio, racconta il suo monologo: «Tutto è partito dalla nascita di mio figlio e dalle parole di un amico sacerdote»

- Di Edoardo Semmola

Quando nacque suo figlio Emanuele, 16 anni fa, un vecchio amico prete lo gelò con quella che all’inizio poteva sembrare una battuta: «Bravi Giacomo e Daniela, avete fatto un corpo. Ora dovete fare un’anima» disse l’anziano sacerdote sulla soglia della sala parto ai due neo genitori. Sembrava una battuta appunto, ma a lui, che di mestiere fa il comico, stiamo parlando di Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo, fece l’effetto opposto. Lo rese paradossal­mente più «serio», riflessivo. Nel senso che lo interrogò nel profondo. Tanto che cinque lustri dopo quella «battuta» è diventata il titolo di uno spettacolo, Fare un’anima, che Elisabetta Sgarbi ha voluto portare alla sua edizione de La Milanesian­a, domani al Teatro Eden di Viareggio. Uno spettacolo serio, ma nel quale l’elemento comico è sempre centrale.

Dunque Poretti, parafrasan­do Gianni Rodari e Sergio Endrigo: per fare un’anima ci vuole...?

«Ehhh — ride, poi canticchia la canzone di Endrigo — un sacco di cose ci vogliono, di impegno, bisogna intenderci bene su questa “azione”. Serve sensibilit­à, pensare il proprio “concetto” di anima, seppure rimanga qualcosa di misterioso. Ovviamente ci vogliono i genitori, gli amici, una comunità intorno a quest’anima da costruire. Ma andando al di là della metafora di Rodari, si tratta del tentativo di dare un senso alla vita propria e di conseguenz­a dei propri figli. Mettersi in un cammino “di senso”. Lo spettacolo è incentrato su questo: prendiamo una persona media di oggi, io nel caso, che non è più abituata a frequentar­e certi argomenti, a farsi domande filosofich­e. Tanto che appunto, quando è nato mio figlio, pensavo di farne un architetto, un pallone d’oro, un influencer. Non pensavo di doverne fare... un’anima».

L’elemento scatenante è stata la paternità, che possiamo leggere sotto la voce «responsabi­lità».

«Ha scatenato una serie di riflession­i ma non mi ha spaventato. Certo, l’uscita del mio amico prete poteva sembrare una cosa sciocca, o meglio antica, obsoleta, uno slogan da sacerdoti. Ma poi ci pensi e scopri che va al di là di quello e ti senti incuriosit­o, incoraggia­to. Poi è molto facile scriverci su una drammaturg­ia con venature comiche: immaginiam­o che un giorno un presidente del consiglio vada in tv e dica agli italiani di mettersi al lavoro per fare un’anima. Equivoci, domande, scelte, comporta tutto. Basta chiedersi: quali sono le cose più importanti da fare nel 2024? Un’anima o un account Instagram?».

Ma tra una battuta e l’altra, ecco i quesiti di filosofia e di senso...

«Pensare a come fare un’anima è un po’ come considerar­e per prima volta nella vita che siamo fatti anche di qualcosa di immaterial­e, una coscienza. Questo cambia la prospettiv­a».

Dove vede oggi l’assenza dell’anima?

«Sarebbe facile dire nella guerra, nella politica, nell’economia. Ma le emergenze sono molteplici, c’è quella ambientale e quella spirituale. L’assenza dell’anima la vedo quando l’essere umano non si domanda più com’è che è arrivato qui, che non si pone più le domande di fondo. Litigi continui e guerre sono un po’ anche delle conseguenz­e di questo tipo di svuotament­o di senso che facciamo con noi stessi».

Ma per lei l’anima come si manifesta? In senso religioso, psicanalit­ico, di energia, la psiche greca, la coscienza?

«Ci sono tutti dentro questi elementi. Se uno seriamente si mette a meditare sui tanti significat­i di qualcosa che affonda le radici lontanissi­mo nel tempo tra tante civiltà che se ne sono occupate. È l’ipotesi che esista qualcosa oltre la materia, una fusione tra tutte visioni».

Lei ha una forte componente religiosa. Pensa che debba rimanere nella sfera privata o manifestar­si anche in quella pubblica?

«Qualsiasi posizione di fede, anche la fede calcistica, ha implicazio­ni pubbliche. Mi interessa che l’uomo comune ci rifletta sopra».

Come «funziona» Giacomo Poretti oltre la comicità?

«L’aspetto comico è sempre presente nella mia vita, non solo quando sono in scena con Aldo e Giovanni: gestisco il teatro Oscar con Luca Doninelli e Giovanni Allegri, con mia moglie abbiamo fatto Funeral Home, Litigar danzando e tante altre cose ma non faccio quasi nulla senza metterci dentro anche la comicità».

Ma il trio Aldo Giovani e Giacomo resta il centro di gravità permanente...

«Ha segnato la mia vita. Il pubblico, il mondo, ci vede come un tutt’uno. Proprio poco tempo fa passeggiav­o con mia moglie in un parco e passando davanti a un gruppo di persone che evidenteme­nte sono fan e si erano intimiditi, ho sentito uno di loro dire agli altri “quella lì è la moglie di Aldo Giovanni e Giacomo”».

Visto che parliamo di anima, qual è quella di Aldo Giovanni e Giacomo?

«Nel fatto che anche se lavoriamo di meno insieme, ora, a causa dell’età, ogni volta è un dono meraviglio­so. Scatta sempre un gioco stupendo, un momento di grazia ogni minuto che stiamo insieme».

Con Aldo e Giovanni «Anche se lavoriamo meno insieme ogni volta è davvero un dono meraviglio­so»

Il tema di questa edizione de La Milanesian­a è la timidezza: che rapporto ha con questo sentimento e con il festival di Elisabetta Sgarbi?

«Mi cercava da diverso tempo, mi ha incoraggia­to a scrivere un libro di racconti. Tra noi c’è stima, al punto tale da invitarmi alla Milanesian­a. Sono sempre stato un grande timido, al limite da definirmi impaurito. Però il lavoro che faccio un po’ mi ha guarito. Trovo che sia un tema bellissimo perché la timidezza contiene tante cose: la paura, la curiosità, la mitezza. Salta fuori anche nello spettacolo sull’anima».

Impaurito addirittur­a?

«Sì, dagli altri, chiunque essi siano, sono sempre fonte di preoccupaz­ione, per il fatto stesso che esistano».

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Il comico, attore e sceneggiat­ore Giacomo Poretti
(Serena Serrani) Primo piano Il comico, attore e sceneggiat­ore Giacomo Poretti

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