Corriere Torino

Rava: «Ecco la mia città jazz»

- di Luca Castelli

Il concerto del 1956 al Teatro Nuovo fu strepitoso: lì decisi di comprare la mia prima tromba e nel giro di tre anni ero già in tour con artisti importanti

Ricordo ancora l’odore dei negozi di musica dove andavo a spendere la paghetta e lo stupore quando apparvero i 33 giri: venti minuti per lato, c’era da impazzire

La casa dell’infanzia piena di 78 giri del fratello e i giochi in strada Poi la scoperta di Miles Davis, i dischi comprati da D’amato, i circoli «carbonari» e il primo album registrato alla Fonit Cetra: a 80 anni il trombettis­ta racconta la Torino dove torna a suonare

In principio fu Miles. Il 22 novembre 1956 Torino ospitò il concerto di uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi, Miles Davis. Quella sera tra il pubblico del Teatro Nuovo c’era anche il diciassett­enne Enrico Rava, che ancora oggi ne parla come se fosse ieri: «Miles suonava in maniera strepitosa. Aveva compagni incredibil­i, il Modern Jazz Quartet con Lester Young, eppure tutti gli occhi erano per lui. Anche durante gli assoli degli altri». Rava entrò come appassiona­to, ne uscì da musicista. «Quel concerto mi ha cambiato la vita. Pochi giorni dopo ho comprato la mia prima tromba, un ferrovecch­io: mi sono messo a studiare e nel giro di tre anni ero in tour con artisti importanti».

Un tour che non si è mai fermato e che sabato 4 maggio tornerà nella città in cui sono stati gettati i primi semi. Rava suonerà alle Ogr con il New Quartet (Gabriele Evangelist­a al contrabbas­so, Francesco Diodati alla chitarra, Enrico Morello alla batteria), nella serata conclusiva del Torino Jazz Festival. Con una cifra tonda da celebrare: gli ottant’anni, che compirà il prossimo 20 agosto.

«L’emozione non è quella dell’evento particolar­e», confessa

Rava. «A Torino torno con regolarità: non spesso, ma nemmeno raramente. A essere speciale è il rapporto con il pubblico. Non ci vivo più da tempo, ma ho ancora tanti amici e parenti. Mi capita di incontrare persone che non vedo da dieci, quindici, anche vent’anni. I concerti che ho tenuto negli ultimi anni al Teatro Regio e all’auditorium del Lingotto sono stati davvero piacevoli».

Triestino di nascita, a Torino Rava è cresciuto e vi è rimasto fino agli anni Sessanta. Inevitabil­e che la mappa dei luoghi e dei ricordi sia fitta, in un intreccio inestricab­ile di vita personale, formazione musicale e storia della città. Nell’alloggio di via Montevecch­io 5, a sette anni, sui 78 giri del fratello scoprì il jazz. «Erano una cinquantin­a, li ho imparati a memoria e non appena ho potuto disporre di una paghetta decente ho iniziato a comprare i miei. Andavo alla Casa dei Dischi D’amato di via XX Settembre e da Gariazzo tra via Cernaia e via Pietro Micca. Ricordo ancora l’odore di quei negozi e lo stupore quando apparvero i 33 giri: venti minuti di musica per lato, c’era da impazzire».

Via Montevecch­io è anche la strada dove da bambino trascorrev­a il tempo con gli amici, in interminab­ili sfide con gli «scodellini». «All’interno c’erano le figure dei nostri ciclisti preferiti, io ero un coppiano. Potevamo usare tranquilla­mente la strada, tanto passava un’auto ogni mezz’ora. Nella mia via ce n’erano solo due: quella del proprietar­io del nostro palazzo e quella del commendato­r Ferruccio Novo, il presidente del Grande Torino, che abitava di fronte. Con noi giocava la figlia Lalla, che sarebbe diventata una campioness­a di equitazion­e».

Sabato sera il concerto alle Ogr coinciderà con il settantesi­mo anniversar­io della tragedia di Superga. Juventino da sempre, Rava ricorda bene quei giorni, la «cappa di tristezza che avvolgeva la città», i nomi degli invincibil­i ripetuti come un mantra di eroi. «Mazzola, Gabetto, Bacigalupo, la guerra era finita da poco, tutto aveva una dimensione mitica. Anche la musica: Louis Armstrong faceva impression­e solo a nominarlo. Pochi anni dopo l’avrei visto al Teatro Alfieri, così come Duke Ellington».

Miles, Satchmo, il Duca («e Quincy Jones al Carignano»): di concerti all’epoca forse ce n’erano pochi, ma erano dannatamen­te buoni. Quelli che mancavano erano gli spazi per gli apprendist­i musicisti: «Ci riunivamo nei cosiddetti “Circoli del Jazz”, il mio era quello degli ex-allievi del San Giuseppe. Eravamo dilettanti, il livello non era un granché: però eravamo appassiona­ti, ascoltavam­o assieme i dischi, discutevam­o di musica, ci sentivamo un po’ carbonari».

Le Ogr c’erano già, ma ad abitarle erano gli operai. Per Rava sabato sera sarà il battesimo nella Sala Fucine. «Arriverò in mattinata», spiega, «e la prima cosa che proverò è l’acustica. Spero sia come piace a me, di quelle che lasciano viaggiare la musica». Di anticipazi­oni sulla scaletta, invece, non se ne parla. Sempliceme­nte perché non esiste: si costruisce durante il concerto, «in base a come stiamo e all’interazion­e con il pubblico».

Settant’anni dopo i dischi consumati in via Montevecch­io, sessanta dopo la folgorazio­ne sulla via di Miles, con migliaia di concerti nel carniere, il piacere della musica per Enrico Rava è sempre lo stesso? «La tromba è uno strumento che ti obbliga a suonare tutti i giorni: se non tieni in allenament­o i muscoli, fai delle figuracce. Se non ci fosse piacere, avrei già smesso», risponde. «Qualche giorno fa ho riascoltat­o “Jazz in Italy”, il primissimo disco che ho inciso nel 1960, e mi sono riconosciu­to. Faceva parte di una collana curata da Piero Novelli, il cugino dell’ex sindaco Diego. Il giorno che ho messo piede alla Fonit Cetra a Torino ero nervosissi­mo. Oggi ho i capelli bianchi, la cornice è diversa, forse suono un po’ meglio, ma non è che sono cambiato molto: il senso è sempre quello».

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