Corriere Torino

«Non si arrabbiò per la birra a tavola, così capii che Bocca stava per morire»

Gli «Incroci» del pittore Tullio Pericoli: «Fui segnalato da Zavattini, avversato da Tadini»

- Barbara Notaro Dietrich

Uomini e donne e non solo, perché appaiono anche inquietant­i — seppure letterari — roditori. Sono i protagonis­ti degli «Incroci» della vita di Tullio Pericoli. Che li racconta e descrive per come sono avvenuti, casualment­e ma anche fortemente voluti.

«Me ne sono accorto una volta chiuso il libro: alcuni li ho proprio cercati, ho preso la macchina, li ho inseguiti, sono andato a bussare alla loro porta come nel caso di Lucio Mastronard­i».

Perché pensa che si sia suicidato?

«Era forse nel suo destino. Era un uomo infelice, anche quando aveva successo. Con Bianciardi era lo scrittore di cui parlava di più negli anni 60. Dentro di lui c’era un’amarezza e una profonda difficoltà di stare al mondo. Il suo contatto con l’esterno era aperto, sincero, diretto e questo lo esponeva a contraccol­pi molto duri».

Un altro tormentato era anche Giovanni Testori.

«L’ho conosciuto bene piuttosto tardi — prima lo avevo solo incrociato quando scriveva per il Corriere — quando voleva fare una mia mostra di ritratti e scoprii questo angelo molto tormentato ma dolcissimo, che attraverso gli occhi esprimeva tutto quello che aveva in mente».

Che cosa ne è stato del murale che ha fatto per Livio Garzanti?

«C’è ancora, ma è chiuso come uno scrigno in via della Spiga a Milano con tutta la moda che gli balla intorno. Almeno non è stato distrutto come il graffito di Saul Steinberg…».

Perché mandò proprio a Zavattini i suoi primi lavori?

«È stato del tutto fortuito. Andai a Roma con i miei disegni in cerca di lavoro. Feci un giro nelle redazioni di allora ma non combinai nulla. Un giorno mi fermò nel corridoio dell’espresso Piero Marussig, il figlio del pittore, che si occupava di cinema e mi consigliò di scrivere a Zavattini che fu molto generoso e scrisse due lettere di segnalazio­ne per me».

Le sue narrazioni di Emanuele Pirella e Emilio Tadini per certi versi sono antitetich­e…lei ha fatto a Pirella, dicendogli che il suo romanzo non le piaceva, quel che Tadini ha fatto con lei quando le fece capire che certi lavori non andavano bene.

«Però Tadini è stato molto più abile. Non mi ha offeso, mentre io e Pirella, che poi abbiamo lavorato a lungo assieme, non ci siam parlati per quattro anni…».

Lei scrive che senza Tadini sarebbe stato come cenare senza vino. Un po’ come l’ultima birra di Giorgio Bocca.

«Giorgio amava superbamen­te il vino. Facevamo delle scampagnat­e nelle Langhe al solo scopo di portare bottiglie e bottiglie a Milano. L’ultima volta che lo vidi a casa sua a pranzo, qualcuno aveva versato nel suo bicchiere della birra e da qualche tempo perché era ingiallita, senza schiuma, come vecchia. Non lo avevo mai visto bere un sorso di birra e il fatto che non prendesse il bicchiere e lo scaraventa­sse fuori dalla finestra è stato per me il segnale definitivo che se ne stava andando».

Lei che è un maestro del paesaggio pensa che alcuni, almeno per come lei descrive Bocca quando andavate in Langa, abbiano i loro paesaggi scolpiti dentro anche senza guardarli?

«Bocca non mi faceva mai un commento sul paesaggio circostant­e, ma cambiava la sua faccia. Si sentiva nel luogo in cui la luce conveniva al suo aspetto, ai suoi colori, ai segni del suo volto, come se le due cose si ricombinas­sero».

Invece pare che lei abbia scoperto il suo solo quando incaricato da Italo Pietra, suo direttore al Giorno, la incaricò di trasportar­lo su carta per lui.

«Io lo avevo come sepolto, forse perché ne avevo paura. Lui mi impose un gesto che da solo non avrei fatto. Fu una doppia scoperta, del paesaggio e della sua importanza in quanto luoghi dove si è nati. E mi ha fatto scoprire che le cose passate non si possono cancellare».

Quando ha fatto la mostra ad Alba prima ha percorso quelle colline in lungo e in largo.

«Sì, con un mio amico che si offrì di accompagna­rmi in moto, cosa che mi permise di avere una visuale a 360 gradi, sentendo anche i profumi, il vento».

Lei pensa per immagini?

«Sì è il mio carburante. Altri pensano per parole. Ma come scrive Calvino il meccanismo della mente non è fatto solo di parole ma soprattutt­o di immagini. Poi a volte quando non comprendia­mo qualcosa ci fermiamo ancora prima, ma le cose che non capiamo si sciolgono con un altro solvente, in un altro momento: è importante salvare il fascino di quella porta chiusa che prima o poi si aprirà».

Uno che dava a tutti molta chiarezza era Umberto Eco. Che cosa le manca di più del suo amico?

«Negli ultimi anni era una persona dolcissima e mi manca come amico. Ma manca a tutta l’italia perché non sappiamo più a chi rivolgerci. Vorremmo avere qualche chiariment­o. Ecco, lui aveva questo grandissim­o talento: di chiarire non solo quello che stavamo facendo ma quello che stavamo pensando. E proprio in questo particolar­e momento, sarebbe importante per tutti».

Lei che si è quasi genuflesso davanti a Montale, oggi per chi lo farebbe?

«Diciamo che oggi non ce la farei più data l’età…e che quindi non mi pongo il problema. Vivo appartato».

Sempre leggendo la mattina e dipingendo il pomeriggio?

«Tento di mantenere questa abitudine che poi è una piccola necessità. L’abitudine, quella di cui parlava Proust, tiene fuori la paura dell’istante».

Quasi genuflesso davanti a Montale, oggi non ho più l’età e quindi non mi pongo il problema

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A sinistra Tullio Pericoli, Autoritrat­to, 2017. Sopra il ritratto di Fausto Melotti
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